Periscopio – Guerre sante
In giorni in cui – non senza buone ragioni – si denuncia, in modi sempre più ansiosi e concitati, il pericolo dell’Islam – senza neanche troppo preoccuparsi di cosa, esattamente, si voglia intendere con tale termine – sarebbe utile fermarsi a riflettere su come tale paura non faccia certamente, ai nostri tempi, la prima comparsa nella storia, ma riproponga, in forme certamente mutate, una contrapposizione di civiltà, vera o inventata, che ha segnato per lunghi secoli la storia dell’Europa e del Mediterraneo: basti fermarsi a riflettere un attimo che cosa, per i nostri avi, abbiano significato scontri come quelli di Poitiers, Costantinopoli, Cipro, Vienna, Lepanto, invariabilmente visti come altrettanti snodi epocali dal cui esito sarebbero dipese le future sorti dell’umanità. E molti desidererebbero con trasporto, certamente, che anche oggi la guerra contro il temibile nemico abbia il suo esito finale in una bella battaglia campale, di mare o di terra, nella quale le forze della cristianità, riunite sotto vessilli bianchi mossi dal vento, possano finalmente sgominare gli eserciti nemici, gettando nella polvere, o a mare, le loro bandiere nere. Perché sull’esito dell’Armagheddon non c’è dubbio, è già scritto nel libro del destino. Sarebbe bello, ma purtroppo non avverrà mai. Questa guerra preferisce, ai campi di battaglia, i boulevard, i caffé e i supermarket, non ama i confini, le divise, la disciplina e le strategie, vuole che i soldati non si concentrino in un solo posto, ma mi si mischino al ‘nemico’ e vadano qua e là, alla spicciolata, a fare quello che possono e quello che gli pare, secondo l’estro del momento. Non ci sarà mai la grande battaglia di Parigi, di Berlino o di Roma, che i nostri nipoti potranno studiare sui libri di storia. E non ci sarà “the End”. Peccato.
Per placare un po’ questo senso di frustrazione, suggerisco la lettura di un libro, appena pubblicato, di grande interesse, che ci rimanda, in pagine di notevole rigore storico e di alta godibilità letteraria, al passato drammatico ed eroico del tempo del “mamma li turchi”, quando la paura dell’Islam assumeva i contorni, familiari ancorché tragici, dello scontro militare tra eserciti nemici, oscillante tra gli opposti esiti della vittoria o della sconfitta: Otranto 1480. Il sultano, la strage, la conquista, di Vito Bianchi (ed. Laterza). Un libro che ricostruisce, con dovizia di particolari e di retroscena, le drammatiche e torbide vicende che portarono, nel 1480, le truppe di Mehmet/Maometto II, detto Fatih, “il Conquistatore” (per avere, 28 anni prima, preso Costantinopoli) a espugnare la cittadina salentina (ritenuta dai turchi legittima proprietà della Porta di Oriente, in quanto precedentemente dominio bizantino), dopo un sanguinoso assedio, concluso con la decapitazione di centinaia dei suoi abitanti (i cui teschi, com’è noto, esibiti nel duomo in un due grandi teche di cristalli, rappresentano una delle più importanti attrazioni religiose e turistiche del Salento).
Oltre che per la cura con cui il libro ricostruisce le vicende della guerra e le sue cause, prossime e remote (tra cui, in particolare, le precise responsabilità della Repubblica di Venezia, dei Medici, del Regno di Napoli e del Vaticano), un suo grande merito è quello di spiegare il modo in cui la vicenda dei martiri di Otranto – collettivamente elevati, come si ricorderà, da papa Giovanni Paolo II alla gloria degli altari – sia stata reiteratamente sfruttata, sul piano propagandistico, ogni volta che lo scontro con gli “infedeli” tornava a presentarsi come un argomento di attualità. Già molte volte, infatti, a partire dal Cinquecento – da ultimo, nel 1911, con la campagna di Libia -, sempre nel quadro di scenari di scontri epocali tra “Occidente cristiano” e “Oriente musulmano”, si era avvertita l’esigenza di santificare i martiri, che, secondo la tradizione, avrebbero sacrificato la vita pur di non rinnegare la propria fede. Ma non si era mai riusciti a farlo, però, perché, come dimostra Bianchi, in realtà, se è vero che gli idruntini furono decapitati per rappresaglia, non esiste nessuna testimonianza storica attendibile del fatto che ciò sarebbe avvenuto a seguito di un loro rifiuto di convertirsi all’Islam, giacché l’alternativa tra la morte e la conversione non risulta essere mai stata loro posta. Se è vero quindi, che furono uccisi dagli invasori, come vendetta per la resistenza, non sarebbe vero che avrebbero coscientemente scelto il sacrificio per “amor fidei”, cosa che sola ne avrebbe giustificato – come atto eroico – la santificazione. Il dubbio sarebbe stato finalmente sciolto solo il 12 maggio del 2013, e anche ciò sarebbe avvenuto in un preciso contesto storico e politico, ossia quando, a seguito dell’11 settembre, l’Islam è tornato a diventare, per l’ennesima volta – avendo scalzato il comunismo, ormai diventato innocuo – il principale avversario della cristianità e dell’Occidente.
La morte di Maometto II, ai primi del 1481, insieme al mutato quadro internazionale a alla stanchezza dei contendenti, portò, dopo solo pochi mesi dall’insediamento, alla partenza dei turchi, e alla “riconsacrazione” della Terra d’Otranto, nella cui identità culturale sarebbe rimasta scolpita per sempre la tragica e gloriosa epopea (opportunamente depurata dei molti tradimenti della cristianità, nonché ornata di qualche eroismo di fantasia) della “guerra santa”. Con la quale – a livello reale o immaginario – chi sa per quanto ancora, siamo evidentemente condannati a convivere.
Francesco Lucrezi