“Venezia, la mia città speciale”
La prima volta in Laguna, appena scesi dal treno due ragazzi americani si guardano intorno. Poi intuiscono che lei deve saperne qualcosa, e prima di perdersi in un flusso interminabile di visitatori inconsapevoli la fermano e le chiedono: “Ci scusi, ma c’è qualcos’altro da vedere, in questa città, oltre a quella grande piazza San Marco”? Donatella Calabi, una cattedra di Storia della città e del territorio al prestigioso Istituto universitario di architettura di Venezia, una vita di studi per spiegare la complessità di Venezia e del modello della città italiana, non fa una piega, non si scompone, e comincia pazientemente a spiegare che sì, certo, esiste molto altro da vedere, per chi vuole davvero conoscere la città sull’acqua.
Molti altri, alcuni più consapevoli, altri appena sottratti alla folla distratta e disordinata che percorre la riva degli Schiavoni e cammina sul selciato rovente della piazza più celebrata del mondo, si mettono intanto in fila per entrare a palazzo Ducale. Il simbolo del potere della Serenissima ospita in questi mesi, fino al 13 novembre, una mostra memorabile, “Venezia, gli ebrei e l’Europa 1516-2016”, curata proprio da Donatella Calabi e dedicata ai cinque secoli che ci separano dall’apertura del primo ghetto della storia. L’itinerario, attraverso i saloni spettacolari di uno degli edifici più affascinanti di Venezia, coglie di sorpresa il visitatore. Non solo rigorosa ricostruzione storica di cosa è stato il ghetto e poi il quartiere ebraico, ma anche una riflessione sull’identità della città, una lezione per capire il senso dello sviluppo urbano, il problema dell’integrazione e della segregazione, la potenziale ricchezza della convivenza fra culture diverse e apparentemente inconciliabili. Una lezione di storia e di urbanistica che accomuna rigore e amore per un luogo unico al mondo, indissolubilmente legato nelle sue vicende secolari, ai destini degli ebrei che lo hanno abitato e continuano a frequentarlo.
Tutti vogliono visitarla, pochi la comprendono davvero. Ma in realtà Venezia che cosa rappresenta? Un mondo alternativo, un luogo unico e irripetibile che appartiene ad altri pianeti, oppure un modello che ci aiuta a comprendere i destini e le potenzialità della città italiana?
Venezia è soprattutto una città. Una città tutta speciale, determinata dalle difficoltà e dalle caratteristiche ambientali della laguna in cui si trova, circoscritta dall’acqua e dalla sua natura ben nota a tutti. Sempre diversa, mai paragonabile ad altri luoghi, ma pur sempre una città. La specificità fisico morfologica non esclude il suo carattere di città.
Da dove prendono avvio le tue ricerche su Venezia?
Ho molto lavorato sugli sviluppi degli spazi mercantili, che costituiscono il cuore di una città. Le logiche di organizzazione degli spazi, il tentativo di regolamentazione degli scambi e dei comportamenti. Il percorso di Venezia è autonomo, ma fra il quindicesimo e il diciassettesimo secolo procede in parallelo con quello conosciuto dalle altre grandi città mercantili, come Anversa, Siviglia, Londra, Parigi.
Comprendere Venezia significa allora acquisire gli strumenti per comprendere più in generale correttamente lo sviluppo di tanti modelli di città?
Credo che Venezia possa costituire un banco di prova importante per comprendere i problemi delle città.
Da dove cominciare, per capire, se non si fa parte del mondo degli addetti ai lavori, ma non ci si vuole ridurre alle brutalità del turismo di massa?
Tanto per cominciare vorrei consigliare la lettura di un piccolo libro dell’archeologo e storico dell’arte Salvatore Settis, “Se Venezia muore”. Leggendolo si comprende bene come Venezia possa essere il caso emblematico e contemporaneamente il caso estremo di cosa è oggi una città e di quali sono i limiti e le minacce che un centro storico si trova oggi a fronteggiare. Venezia è emblematica proprio da questo punto vista.
Nelle scorse settimane si è giudicato da diversi punti di vista il significato delle manifestazioni culturali attorno a questo cinquecentenario del ghetto di Venezia. Alcuni hanno manifestato fastidio nei confronti di avvenimenti culturali che rischierebbero di apparire come una involontaria celebrazione di una pagina buia della storia ebraica, quella della separazione forzata. Ma la mostra mette l’accento su una lettura più complessa. Come dobbiamo leggere l’istituzione del ghetto?
Venezia deve essere guardata come luogo di pluralismo e questo ci insegna la storia lunga del ghetto di Venezia, la cui istituzione rivela una volontà, giusta o sbagliata che fosse, di organizzazione della città. Gli stranieri, le minoranze, erano necessari alla crescita della Repubblica, e Venezia ha trovato le sue risposte per far convivere nello stesso spazio esigenze diverse. Certo la mia lettura delle vicende del ghetto non è convenzionale. Ma non credo che quando si parla del ghetto di Venezia sia né ragionevole né utile evocare il ghetto di Varsavia. Non mi sembra che serva per chiarire i grandi problemi di integrazione e di separazione che ci troviamo ad affrontare ancora oggi.
Il modello del ghetto di Venezia, il primo ghetto della storia, non è applicabile altrove?
Il caso di Venezia è ben diverso dal caso del ghetto di Roma, o di Firenze, o di Siena, o di Modena. A distanza di 30 o 50 anni sono stati costituiti sul territorio italiano e proprio noi italiani abbiamo l’occasione di studiare perché il modello di Venezia fu un modello molto avanzato. Il modello di Venezia è chiaramente un modello di città nella città, un microcosmo organizzato al suo interno, e il campo di ghetto nuovo è il luogo della conservazione dell’identità. Un esperimento che né a Padova né a Modena si è mai riusciti a realizzare compiutamente. Gli spostamenti degli ebrei nel bacino del Mediterraneo a partire da Venezia hanno consentito, del resto, anche l’esportazione di modelli e ragionamenti molto importanti nella logica di organizzazione delle città. Le vicende del ghetto di Venezia derivano dalla forte volontà, nel bene e nel male, di organizzare la città. L’espulsione degli ebrei dal mercato di Rialto non corrisponde solo alla volontà di separare, ma anche a quella di classificare e di organizzare nuovi spazi economici nel tessuto urbano.
In questa stagione gli esiti di alcune significative prove elettorali, dalle elezioni amministrative nelle grandi città italiane al referendum inglese sulla Brexit, sono stati letti sulla base della distribuzione geografica del consenso e hanno evocato una contrapposizione fra aree urbane e aree non urbane. Le città, dove talvolta il disagio sociale e la sofferenza sono più intensi, sono tuttavia davvero il laboratorio dell’innovazione?
Le città, soprattutto le città capitali, sono il luogo dell’innovazione, della sperimentazione. E non mi sento nemmeno di condividere l’idea che le città siano necessariamente uno spazio di sofferenza, quando in realtà negli spazi urbani storicamente si è sempre stati meglio che nelle campagne. Ma generalizzare ovviamente non è possibile.
Venezia, gli ebrei, il ghetto. Questa grande mostra di palazzo Ducale serve anche per ragionare di una città che è stata grande e di una città ebraica nella città generale. Ma in una Venezia di oggi, minacciata, assediata, svuotata di tanti suoi abitanti, serve anche per ragionare di cosa rende un luogo una città. Il numero dei suoi abitanti, un criterio numerico che ridurrebbe la Venezia di oggi alla stregua di un piccolo centro? I criteri organizzativi dello spazio? La capacità di creare cultura?
Le città vere non sono solo una somma di abitanti. Le città sono un progetto, una politica del territorio, sono una rete di servizi, una somma di opportunità e di modelli diversi, la ricchezza della pluralità dei modelli, delle idee e delle risposte. E si misurano per la diversità che riescono a contenere, per le diverse opzioni che sono capaci di offrire. Proprio l’Italia, se studiata a fondo, è il territorio di piccoli centri che noi chiamiamo città a pieno titolo, perché non è il numero dei loro abitanti, ma la ricchezza di infrastrutture, di servizi, di scambi che le fa grandi. Penso a luoghi come Mantova, Ferrara, Urbino, Siena e tanti altri. Il modello della città italiana ha ancora molto da dire al mondo.
Quella di cui parli è la geografia dell’Italia dei comuni, proprio la stessa geografia su cui si dipana da molti secoli l’identità degli ebrei italiani e in particolare la distribuzione delle 21 comunità che fanno l’Italia ebraica di oggi.
Nel video che accoglie i visitatori della mostra di palazzo Ducale si mostrano proprio i flussi migratori degli ebrei nel Mediterraneo. I centri di insediamento ebraico confermano la geografia urbana della Penisola. La città di tutti e la città degli ebrei, attraverso mille difficoltà, progressi e incertezze, ingiustizie e conquiste, attraversano un destino parallelo che non può essere disgiunto.
Guido Vitale, Pagine Ebraiche Agosto 2016
(28 luglio 2016)