Venezia, gli ebrei, l’Europa
L’arte di essere cittadini del testo
Per raggiungere “Divided Waters” bisogna seguire le candele accese nella piccola Calle: all’imbrunire indicano agli invitati il percorso seminascosto che porta all’ingresso della servitù. E da lì l’incanto: il tramonto sul Canal Grande attira immediatamente tutti sulle balconate mentre gli artisti del collettivo OTT – Citizens Of The Text, girano fra gli ospiti. Ispirati dal cinquecentenario dell’istituzione del Ghetto di Venezia, con le loro opere intendono indagare le origini del nostro mondo cercandone il significato attraverso il lavoro sul testo. Yael Kanarek, Edith Derdyk, Mirta Kupferminc e Ghiora Aharoni hanno così unito le loro energie e le loro idee allestendo negli spazi di Palazzo Fontana una esposizione centrata sul linguaggio. All’ingresso l’ipnotico video “Juppah” di Mirta Kupferminc, autrice anche di una affascinante riflessione su Borges e sulla Kabbalah, sviluppata insieme al critico Saul Sonsowski – entrambi sono argentini – e subito si passa al lavoro di Yael Kanarek, tutto incentrato sulle infinite ripetizioni della parola occhio in ebraico, in arabo e in yiddish, oltre che nel più ovvio inglese, fissate a un grande pannello. Solo apparentemente semplice il lavoro di Edith Derdyk che con materiali comuni, dalla carta al cotone, trascina lo sguardo del pubblico a confrontarsi con dicotomie forti e struggenti, in un riferimento costante alla contraddittorietà stessa del ghetto, mentre Ghiora Aharoni spiegando il suo lavoro racconta anche come spesso gli venga chiesto se “era proprio necessario l’arabo, era opportuno?”. Una domanda che lo porta immediatamente a raccontare della propria famiglia yemenita e di come l’arabo, tanto quanto l’ebraico, sia per lui lingua materna, e radice imprescindibile. Un confronto costante, culture e identità intrecciate come lo sono anche nelle sue opere, dove la dicotomia separazione/integrazione è sempre presente. La maquette di Shalem/Chasser, che dovrebbe essere presentata il prossimo anno alla Biennale nelle sue dimensioni reali attira domande su domande, a cui non si sottrae raccontando con passione e dolcezza insieme il suo percorso artistico, e le domande anche esistenziali che l’hanno portato a lavorare sulle lettere che formano la parola Shalem (intero/completo) ricavando da esse le lettere che formano Chasser (buco/vuoto). Per unire il pieno e il vuoto, la separazione e l’integrazione vissute dagli abitanti del ghetto, in una riflessione che porta però immediatamente anche all’attualità. Occasione di incontri, con molti dei partecipanti ai tanti eventi di una settimana straordinaria che si ritrovano in uno spazio non convenzionale, la mescolanza di studiosi e artisti, dal fotografo alle ricercatrice, dall’esperto di libro antico che si confronta con la direttrice di un museo, la serata si è lentamente trasformata in una vera e propria festa, e insieme alla musica a bordo acqua sono comparsi grandi cuscini, numerosi manhattan e una gran voglia di parlarsi e chiacchierare, per conoscersi e condividere idee e progetti. Probabilmente il vero segno di un cinquecentenario che si va configurando sempre più come vera e propria fucina di futuro.
a.t. twitter @atrevesmoked
(primo agosto 2016)