…pessimisti

Il mondo si divide in ottimisti e pessimisti, quelli che vedono tutto in rosa e quelli che vedono tutto in nero. I primi vivono assai meglio, perché sorridono al mondo, e il mondo restituisce loro dei bei sorrisi. È vero che qualche volta l’ottimismo si traduce in compiacenza per far cosa gradita al mondo, per non disturbarlo con le proprie lamentele, ma questo va nel conto dei piccoli inconvenienti accessori.
I pessimisti, d’altro canto, tolgono serenità e tagliano continuamente le gambe alle illusioni, perché invece di bearsi delle rosee verità amano sottolineare gli svantaggi che fanno da contrappeso alle rose sul prato. Il loro bicchiere è sempre mezzo vuoto.
Si legge ora, su L’Osservatore Romano, della rinascita della vita ebraica in Polonia e della ripresa entusiasmante dei rapporti fra cristiani ed ebrei. Rimane purtroppo molto sotto traccia qualsiasi chiara ammissione di responsabilità da parte del cattolicesimo polacco per il suo bieco antisemitismo e per le efferate conseguenze che gli ebrei ne pagarono. Anche sull’antisemitismo post-bellico neppure una parola, mentre sono ben presenti le colpe del comunismo, che colpe furono, naturalmente, ma non morirono certo di solitudine.
Gli ebrei in Polonia oggi sono importanti, per un turismo che ne usufruisce in abbondanza. Appena esci dall’aeroporto, il tassista ti propone per il giorno dopo una bella visita ad Auschwitz. Tu gli rispondi che Auschwitz l’hanno già visitata i tuoi, in altri tempi, e non ne sono mai usciti, e tu non hai bisogno di ritornarci. A Cracovia, a Lublino, a Varsavia trovi solo il vuoto, ciò che ci sarebbe potuto essere e non c’è più. Nella città vecchia di Cracovia, ristoranti e alberghi hanno nomi evocativi: Chajim Kohan, Rubinstein, Babelstein, Ariel, Jewish Restaurant Cafe. Tutti reclamizzano cucina ebraica, che di ebraico ha solo il nome. La kasheruth poi è una bestemmia. Sinagoghe e cimiteri, per lo più abbandonati e utilizzati per visite museali, sono tutti ben indicati perché servono a far cassa. Di ebrei – turisti a parte – c’è solo l’ombra pesante del passato. I pochi ebrei vivi e veri vagano come fantasmi in un cimitero, e a stento riescono a metter su un minian pur di non pregare insieme, come al solito. Come se il passato non avesse insegnato nulla.
Esiste anche un Centro Comunitario Ebraico, una bella iniziativa, ma un embrione s-culturalizzato che di più non si può, perché lì la vita deve ricominciare da zero, partendo dalla non facile impresa di recuperare e riavvicinare persone, anche se con idee ed esperienze di vita diametralmente opposte. Un bell’esempio di convivenza, se non altro.
Mi raccontava un eminente amico qualche tempo fa che, incontrando un anziano amico di suo padre, amico fra l’altro di Woytila, gli raccontò di essere stato a Yad Vashem e di esserne rimasto sconvolto: “Ma che cosa mai gli abbiamo fatto (agli ebrei)!”, gli disse. E l’anziano amico del padre gli rispose: “Vedo che sono riusciti a convincere anche te!”
Leggetevi Il bambino nella neve, di Wlodek Goldkorn.
L’ottimista ha certamente ragione: bisogna riallacciare i rapporti e dialogare, e bisogna preparare un futuro che sia diverso dal passato. E bisogna sperarci.
Ma lo spazio per il pessimismo è assai ampio, e seppur si possono apprezzare gli sforzi di papa Bergoglio e i tentativi di riconciliazione in Polonia, non è facile abbandonare i mille sospetti sugli intenti altrui e riconciliarsi con la storia della Chiesa. Non se ne ha neppure il diritto. Non si perdona per delega, lo ha scritto di recente anche rav Riccardo Di Segni.
Anziché sentire un papa che chiede a Dio di perdonare gli aguzzini, sarebbe bello sentir levare contro di loro una solenne maledizione universale. E una confessione collettiva, in prima persona. Ma forse non sarebbe un atto politico utile per un papa.

Dario Calimani

(2 agosto 2016)