DafDaf guarda a Rio
L’importante è partecipare
In occasione delle Olimpiadi, anche DafDaf, il giornale ebraico dei bambini, ha provato a raccontare ai suoi piccoli lettori il fascino di una manifestazione che ogni quattro anni è al centro dell’attenzione mondiale, al di là di ogni polemica, per gli ideali a cui continua nonostante tutto a ispirarsi, e per la semplice bellezza del gesto sportivo, a cui gli atleti hanno dedicato una grande parte della propria vita. Riproponiamo qui le pagine “Olimpiadi” dal numero di DafDaf di agosto, in distribuzione in questi giorni
a.t. twitter @atrevesmoked
Riuscite a immaginare niente di più bello? Migliaia di atleti, in rappresentanza di centinaia di paesi. Culture, religioni, identità diverse che si incontrano, pacificamente, per alcune settimane di sport ad altissimo livello.
Ogni quattro anni il miracolo riesce. Ed è un miracolo a cinque cerchi. Il miracolo delle Olimpiadi.
Questa estate l’appuntamento è a Rio De Janeiro, in Brasile, dove dal 5 al 21 agosto prossimi si svolgerà la 31esima edizione dei Giochi, la prima ad essere ospitata in Sud America.
Attenzione però, 31esima dell’epoca moderna. I Giochi furono infatti rifondati nel 1896, grazie all’iniziativa del barone Pierre de Coubertin. Ma la loro è una storia antichissima: l’istituzione delle Olimpiadi risale a quasi 3mila anni fa, nell’Antica Grecia. All’inizio erano essenzialmente una manifestazione locale e comprendevano solo una gara di corsa. Poi si aggiunsero nel tempo altre discipline, come pugilato, lotta e pentathlon.
Oggi gli sport sono molte decine, di tutti i tipi e per tutti i gusti.
Tra un tuffo e l’altro, ad agosto, ritagliatevi uno spazio per questo spettacolo imperdibile!
L’importante è partecipare
“Se vinci, non gloriarti della tua vittoria; se perdi, non lasciarti scoraggiare. Quando sei al sicuro non essere imprudente; quando sei in pericolo non avere paura. Continua semplicemente a percorrere la strada che hai davanti a te”. Così parlava il giapponese Jigoro Kano, che sul finire del 1800 ideò il Judo, una delle arti marziali oggi più popolari al mondo. In giapponese judo significa via dell’adattabilità, o via della gentilezza ed è allo stesso tempo un’arte, una filosofia, uno sport da combattimento e un metodo di difesa personale. Insegna il rispetto verso l’altro – con l’inchino con cui inizia ogni incontro -, verso se stessi, a capire e misurarsi con le proprie forze e con quelle degli altri senza diventare violenza gratuita. Ed è per questi motivi, spiegano diversi atleti che parteciperanno alle Olimpiadi di Rio 2016, che molti di loro hanno scelto il judo; hanno scelto di salire sul tatami (il tappeto quadrato i due judoka si fronteggiano) e combattere.
Tra loro, anche una coppia di ebrei australiani, i fratelli Katz, e la fortissima squadra israeliana, che spera di portare a casa da Rio più di una medaglia. Anche i fratelli australiani, Josh e Nathan, ci sperano ma per loro, entrambi giovanissimi (Josh ha 18 anni, Nathan 21), la strada è tutta in salita. “Tutto può succedere”, la porta lasciata aperta da Nathan, che in un’intervista ha cercato di mostrarsi sicuro di sé, “credo che la mia condizione migliore sia sufficiente a creare qualche grande grattacapo agli altri… e così ogni giorno mi alleno e faccio il possibile per raggiungerla”. E Nathan potrebbe vedersela con un altro judoka giovanissimo, l’israeliano Golan Pollack (66 kg), a cui di sicuro non mancano cuore e coraggio: Golan lo scorso anno, a soli 22 anni, si è trovato a fronteggiare uno dei judoka più forti in circolazione, l’ucraino Georgii Zantaraia (primo in una speciale classifica che mette insieme i migliori atleti di judo del mondo), di 6 anni più grande di lui. Tutti gli esperti pensavano che Georgii avrebbe messo al tappeto Golan, e invece, sorpreso anche di se stesso, è stato il judoka israeliano a vincere.
Nel judo, si diceva, il rispetto per l’altro è fondamentale. E anche qui c’è una storia un po’ ebraica che lo dimostra e che riguarda sempre le Olimpiadi. Precisamente quelle 1964, alla quale la squadra dei judoka americani si presentò con la componente più multietnica possibile: del team, che ancora oggi viene ricordato con orgoglio, facevano parte un ebreo americano, un nativo americano (quelli che erroneamente vengono chiamati indiani d’America), un afroamericano, e un giapponese americano. Una squadra ben assortita insomma e dovete pensare che al tempo i pregiudizi contro queste diverse minoranze erano molto forti: a un numero limitato di ebrei era permesso frequentare le più importanti università americane (c’era proprio un massimo stabilito, che doveva essere sotto al 10 per cento del numero di studenti totale); per non parlare degli afroamericani, che proprio in quegli anni (gli anni ’60 dello scorso secolo) facevano sentire la loro voce attraverso il pastore Martin Luther King e chiedevano di avere gli stessi diritti degli altri (per esempio? In quegli anni un afroamericano poteva finire in prigione se sposava un cosiddetto bianco e così accadde in Virginia, uno stato americano, nel 1967). Insomma erano anni duri, carichi di pregiudizi, che la squadra di judo americana aveva deciso di lasciare fuori dal tatami. “L’ebreo” del team era James Bregman, che in quei giochi non se la cavò affatto male, arrivando terzo e vincendo la medaglia di bronzo. Bregman, che è poi stato a lungo il presidente della federazione judo americana, non era proprio un tipetto facile e la sua infanzia non l’aveva aiutato, come racconta lui stesso in un’intervista. “Sono cresciuto in un ghetto e da bambino avevo l’asma. Sono stato picchiato, e tanto, per il fatto di essere bianco e per il fatto di essere ebreo”. “Allora non pensavo alle Olimpiadi, avevo gli occhi fissi su come diventare un ragazzo fisicamente in forma, facendo qualcosa di atletico che non mi avrebbe costretto a correre in una tenda a ossigeno. Stare all’aperto era impossibile, non riuscivo a respirare – racconta Bregman – Avevo bisogno di uno sport al chiuso, e di contatto. Ho provato di tutto, grazie a miei genitori: ginnastica, tip tap e ginnastica artistica. Ho scelto il judo come un pesce sceglie l’acqua. Mi sono sentito a mio agio, capendo come andava fatto. Non so se c’ero portato atleticamente ma comunque sono stato sospinto verso il judo. Ero profondamente motivato a conoscere la disciplina e la tecnica”. E se anche voi siete in cerca di uno sport, guardate il judo alle prossime Olimpiadi di Rio, magari come Bregman verrà l’ispirazione a vestire il tradizionale kimono e confrontarvi con gli avversari sul tatami.
da DafDaf 71, agosto 2016
(5 agosto 2016)