Qui Firenze – L’amore della Liberazione
Firenze iniziava ad affrancarsi dall’incubo, ma non era ancora il momento di rilassarsi. Dai tetti della città liberata, in cui già gli Alleati avevano fatto il loro ingresso, i cecchini continuavano a sparare. E Jona Lewin, tra i tanti, era il bersaglio perfetto: sulla divisa inglese, una scritta “Palestine” rendeva chiara a tutti la sua origine e identità. Al pari di tanti correligionari arrivati dalla Palestina mandataria (il futuro Stato di Israele), dove era giunto anni prima dalla Polonia, Lewin aveva scelto di arruolarsi nell’esercito britannico per amore della pace ma anche per vendicare le molte decine di parenti trucidati nella Shoah. Si era fatto due anni in Nord Africa, lo sbarco in Sicilia, la battaglia di Monte Cassino. Combatteva con l’ottava armata, al collo una stella di Davide.
In uno di quei caldi giorni dell’agosto del 1944, con la vicina Fiesole ancora in mano nemica, la mente di Jona era però assorbita da dolci pensieri. La 18enne Betty Canarutto, una affascinante ragazza ebrea fiorentina salvatasi dalla deportazione assieme al fratello Giulio e ai genitori Edgardo e Rosa, era il suo chiodo fisso. Quant’è bella, pensava sfidando i colpi d’arma da fuoco che ancora arrivavano da alcuni stabili, evidentemente non bonificati, per raggiungerla nella casa in cui la famiglia Trenti l’aveva accolta in via del Ponte alle Mosse. Il primo incontro, folgorante, era avvenuto proprio in quell’abitazione al civico 43. A presentarli era stato Giulio, subito colpito dal calore e dalla simpatia dell’esuberante soldato. E la corte a Betty, senza tregua, era partita un minuto dopo.
“L’anniversario della Liberazione di Firenze è sempre un po’ speciale per me. Perché non solo potei riaffacciarmi alla vita, ma anche iniziare ad esplorare sentimenti di cui non avevo potuto godere per via delle persecuzioni. Sentimenti che mi hanno accompagnata per oltre mezzo secolo” si commuove Betty, oggi lucida novantenne. Sul tavolo della sua abitazione decine di foto insieme a Jona, scomparso nel 2000 ma sempre presente nei suoi ricordi e in quelli del figlio Ariel: le prime passeggiate insieme, il fidanzamento, la cerimonia di nozze nella sinagoga di via Farini. Il fotografo li ritrae stretti in un abbraccio sotto al talled, il manto rituale, in attesa del giuramento. È il 27 febbraio del 1945 ed è una delle prime volte che, dopo tanto orrore, il luogo di culto caro agli ebrei fiorentini apre le proprie porte ai sorrisi e alla spensieratezza.
“Jona è stato uno dei primi soldati alleati che mi sono ritrovata davanti agli occhi in quei giorni. Entrambi ebrei, conoscevamo le sofferenze patite dal nostro popolo e dall’Europa intera sotto il giogo nazifascista. Lui, polacco, aveva perso gran parte della famiglia nei campi di sterminio e sognava un nuovo inizio in quello che di lì a poco sarebbe diventato lo Stato di Israele. Io, braccata per molti mesi con i miei cari, scampata più volte all’arresto e delusa dall’Italia che ci aveva traditi già nel ’38 con le Leggi razziali, condividevo il suo stesso slancio. Era il momento di costruire qualcosa di positivo. E capii quasi immediatamente – racconta Betty – che quel futuro ce lo saremmo dovuti procacciare insieme, da marito e moglie”.
Una settimana dopo le nozze Betty è già in viaggio verso Haifa. Jona, ancora in servizio, la raggiungerà soltanto qualche mese dopo. Undici anni nella terra dei Padri e poi il ritorno in Italia, assieme al figlioletto. Le ferite della guerra sono ancora fresche, ma prevale la volontà di costruire qualcosa anche nella città, Firenze, che ha propiziato la loro unione e in cui non sono comunque mancate persone di cuore che hanno squarciato il velo dell’indifferenza degli anni più bui. La bilancia, riflette Betty, pende a loro favore.
Tanti hanno dato una mano, quando voltare le spalle sarebbe stato assai più semplice. Dal primo segnale di pericolo, con l’arrivo dei tedeschi in città. Alla notizia dell’ingresso delle forze alleate, che raggiunge la famiglia Canarutto mentre è rifugiata in uno stabile nei pressi del Ponte del Pino, insieme ad alcuni partigiani: c’è arrivata dopo continui e concitati spostamenti tra Campo di Marte, Lungarni, Porta al Prato. Undici mesi durissimi. Ma in cui qualcuno ha comunque alimentato una fiammella di umanità. “Hatikwa”, è il termine ebraico per speranza. Non a caso il nome sotto cui si identifica anche l’inno dello Stato di Israele. E di speranza Betty si è nutrita continuamente in quella logorante attesa per la libertà.
“L’11 agosto – dice Betty – è la ricorrenza di tutti i cittadini che credono nella pace, nella democrazia, nei buoni sentimenti. In quelle ore, dopo mesi di paura, ho capito davvero che la speranza aveva vinto. Difendiamolo sempre questo valore: oggi come ieri”.
Adam Smulevich, Corriere Fiorentino
(10 agosto 2016)