Rio, Atene
e Gerusalemme
Il Talmud (Makkot 24a) racconta che Rabbì Akivà, vedendo una volpe che si aggirava tra le rovine del Tempio distrutto, rideva: se si era avverata la profezia relativa alla distruzione si sarebbe avverata anche quella relativa alla rinascita. A Tishà Be-Av, che dovrebbe forse essere il giorno più triste dell’anno, inizia la consolazione. Ekhà, il libro delle Lamentazioni, si chiude con parole di speranza (al penultimo verso, che si usa ripetere dopo l’ultimo): “Facci ritornare a Te, Signore, e torneremo; rinnova i nostri giorni come prima.”
Intanto, mentre noi ebrei tingiamo di speranza il ricordo di una tragedia nazionale, in Italia si vive come una tragedia nazionale (prima notizia data mercoledì mattina da giornali radio e telegiornali) il fatto che la nostra campionessa di nuoto sia risultata la quarta più forte del mondo.
La coincidenza di Tishà Be-Av con le Olimpiadi può essere un’occasione per guardare con un po’ di diffidenza ai valori dell’antica Grecia, talvolta un po’ troppo idealizzata. Sarà perché insegno in un liceo classico, in cui il mito della grecità è accolto spesso acriticamente, sarà perché ho appena finito di leggere “Le Ateniesi” di Alessandro Barbero, un romanzo che offre della democratica Atene del V secolo a.e.v. un quadro fosco e terribilmente inquietante; mi scopro a domandarmi se, mentre esaltiamo giustamente i valori di pace, fratellanza, lealtà che dal mondo greco giungono a noi attraverso le Olimpiadi, non dovremmo al contempo stare in guardia contro la competizione fine a se stessa, la glorificazione del vincitore e l’umiliazione del perdente (o di chi non vince abbastanza), la mancanza di rispetto per l’impegno quando non è accompagnato da risultati. Un mondo in cui gli uomini non sono tutti uguali, un mondo fatto di vincitori e perdenti senza mezze misure, è anche un mondo che fatica a conoscere la speranza e la consolazione.
Anna Segre, insegnante
(12 agosto 2016)