Diario di un soldato – Liza

David Zebuloni, studenteCon un nodo alla gola, ho chiesto a Liza se potevo condividere la sua storia.
Lei ci ha pensato un attimo, la testa appena inclinata, poi mi ha sorriso e ha accettato.
Ho deciso di riproporvela così la sua preziosa testimonianza, proprio come lei l’ha raccontata a me. Con la stessa semplicità disarmante. Tutta d’un fiato.
“Sono nata in Bielorussia e mi sono trasferita in Israele all’età di tre anni con la mia mamma e i miei nonni. Mio nonno aveva sempre sognato di venirci ad abitare, aveva a lungo sognato di riabbracciare quei famigliari che, diversi anni prima di noi, avevano compiuto gli stessi passi.
Ho frequentato una scuola elementare religiosa, con la ferma convinzione di appartenere a una famiglia di tradizione ebraica. Nelle immagini della mia infanzia ricordo nitidamente i lumi accesi prima di Shabbat e l’atmosfera particolare che si respirava in casa durante le festività. Tuttavia scoprii all’ultimo anno delle elementari di non essere veramente ebrea, quando mia madre comincio un lungo processo di conversione.
Inizialmente non mi disse nulla, la vedevo solamente uscire, diceva di andare a lezioni di ebraismo e aveva cominciato a rispettare il giorno dello Shabbat. Poi un giorno mi prese da parte e mi confessò di non essere realmente ebrea, mi disse che solo mio nonno era ebreo e che secondo la tradizione ebraica ciò non bastava per definirci tali. Negli anni scoprimmo che in realtà anche mia nonna era ebrea, che durante la Shoah la sua famiglia era scappata dai nazisti per salvarsi, che suo padre venne ucciso e che da allora decisero di nascondere e dimenticare la loro vera identità.
In quanto bambina feci molta difficoltà ad accettate la nuova realtà di cui la mia famiglia faceva parte, mi vergognavo di parlarne con le mie amiche e ogni volta che si rievocava la storia del popolo ebraico avevo lo stomaco in subbuglio, mi sentivo diversa, priva di identità.
Questo senso di disagio e di inadeguatezza mi accompagnò lungo tutta la mia carriera scolastica.
Riponevo tutte le mie speranze nell’arruolamento, mia madre mi aveva sempre ripetuto che mi sarei potuta convertire grazie all’esercito e terminato il liceo aspettavo impaziente che arrivasse il fatidico momento.
Fino ad allora non avevo mai condiviso la mia storia con nessuno, era un segreto che custodivo gelosamente. L’unica persona che era a conoscenza della mia vera identità era il mio ex fidanzato: mi illudevo che, dopo diversi mesi di relazione, fosse pronto per accettarmi e amarmi per ciò che realmente ero. Tuttavia la sua reazione mi spinse a chiudermi ancora di più in me stessa, aumentò quel senso di disagio e di vergogna che ormai faceva parte della mia persona e, anche dopo l’arruolamento, continuai a vivere in quella cruda realtà di cui ero la protagonista assoluta.
Fu una ragazza che cambiò per sempre la mia vita, una ragazza che si trovava nella mia stessa base, che mi raccontò di aver partecipato ad un corso chiamato Nativ, che l’aveva portata alla conversione completa.
Decisi di aprirmi con le soldatesse che facevano parte della mia unità, raccontai loro la mia storia e ricevetti in cambio sorrisi e parole di grande solidarietà. Mi dissero che Israele è la casa di tutti e che l’esercito è una grande famiglia, in cui tutti sono perfettamente uguali.
Spinta da quelle parole decisi di cominciare il corso Nativ, chiamai le compagne di classe che avevano segnato la mia infanzia e la mia adolescenza, convinta che mi avessero respinta e rifiutata. Con enorme sorpresa mi furono vicinissime, mi sostennero in ogni mio passo e si rivelarono entusiaste all’idea della mia conversione.
Cominciai dunque il corso, fu un’esperienza straordinaria. Partecipai a lezioni di ebraismo e sionismo, girai tutto il paese e conobbi moltissimi ragazzi con un vissuto simile al mio.
Così superai la prima fase del processo e passai al secondo, molto più intenso e significativo. Le lezioni erano più mirate, l’ebraismo e i suoi precetti erano il tema principale del corso: le regole della casherut, le regole dello shabbat e delle varie festività, l’esecuzione delle preghiere.
Quel secondo periodo rafforzò la mia convinzione di voler compiere un passo così importante, mi fece capire finalmente che non volevo convertirmi per i giudizi altrui, ma per quel sentimento profondo che mi lega alla storia del mio popolo e a Dio.
Così mi trasformai, cominciai a vedere il mondo da un’altra prospettiva, a far caso a quei piccoli dettagli che fanno la differenza nella nostra religione. Uno stile di vita, ecco, più che una religione.
Non avrei mai immaginato di riuscire a provare tali emozioni, a raggiungere un tale livello di attaccamento e di appartenenza. Penso di essere privilegiata, di aver avuto una preziosa opportunità che non si presenta nella vita di ogni ebreo, di aver maggiori consapevolezze rispetto a gran parte delle persone che mi circondano e che sono ebree dalla nascita.
Oggi posso finalmente dire di aver terminato quel processo lungo e difficile: due settimane fa ho superato l’ultimo esame di fronte al tribunale rabbinico e due giorni fa mi sono immersa nel Mikve per la prima volta.
Ogni giorno ringrazio l’esercito israeliano per aver cambiato la mia vita e ringrazio il Signore per avermi dato la singolare opportunità di riscoprirmi nuovamente, ogni giorno, proprio come fosse il primo.”

David Zebuloni

(18 agosto 2016)