Costumi religiosi

bassanoQuesta polemica sull’accettazione o meno sulle spiagge europee del cosiddetto “burkini” mi pare sterile e fin troppo strumentalizzata. Oltre a essere questo indumento nient’altro che il corrispettivo balneare dello Hijab, sembra che ciò che desta più scalpore non sia tanto il “burkini” in sé ma vedere al mare una donna vestita da capo a piedi e non con un normale due pezzi, senza dimenticare poi che anche in India le donne si immergono nel Gange prevalentemente vestite, e che in Israele nel mondo Haredi esiste un quasi analogo “modest swimwear”. Mi viene da pensare allora che alla radice di tutto ciò vi sia sempre una sorta di conformismo o di difficile accettazione delle differenze culturali e religiose, o forse identitarie. Perché in fondo anche l’uso del velo islamico, su cui si dovrebbe tornare per affrontare il “burkini”, è più una questione identitaria che prettamente religiosa. A questo proposito, è bene rileggere un illuminante articolo che scrisse Khaled Fouad Allam nel 2004 per Repubblica dove in sintesi spiegava che “Lo hijab è un’invenzione del XIV secolo e non ha un effettivo fondamento nel testo coranico. […] La umma, la comunità dei credenti, dovette confrontarsi e scontrarsi con ciò che ora chiamiamo un principio d’alterità; essa si pone il problema di come essere musulmani in una società dominata da non musulmani. […] Il velo assume oggi il significato di un’identità in crisi: oltre a esprimere un malessere generalizzato nelle società islamiche, esso occulta il loro cambiamento e ne esacerba le paure. Chi lo indossa, soprattutto in occidente, lo fa per coercizione, per condizionamento, per rivendicazione o per libera scelta.”
Questo certo dovrebbe essere una riflessione interna al mondo musulmano, ma è utile per comprendere ancora una volta come taluni “costumi” religiosi siano, più che un rispetto delle regole desunte dalle scritture, un prodotto del contrasto con l’alterità e con la modernità occidentale.

Francesco Moises Bassano

(19 agosto 2016)