L’età dei rumori
L’informazione è potere. Si tratta di un’affermazione categorica e tuttavia decisamente sottoscrivibile in società, quelle in cui viviamo, dove esiste ed ha una dignità essenzialmente ciò che è in grado di circolare essendo condiviso da una pluralità di persone. La merce informazione, nell’età dei Big data, del trattamento di una massa gigantesca di “dati”, in perenne accrescimento ed evoluzione, è al giorno d’oggi molto se non quasi tutto: il tutto della comprensione e della trasformazione, che permette di gestire (e innovare) il mondo nell’epoca della globalizzazione. L’informazione, quindi, è ciò che, per definizione, si presta ad essere messo in circolazione. Ma quando si vorrebbe che quel “tutto” fosse chiaro e immediatamente intellegibile, ovvero a “portata di mano” per chiunque, poiché massima è la potenza di fuoco della circolazione di notizie, è proprio allora che interviene il potere devastante della confusione e della manipolazione. Nel primo caso si ha a che fare con una condizione diffusa, molto comune, ma non necessariamente voluta, cioè non ottenuta intenzionalmente, dove all’affastellarsi disomogeneo di dati, e di sollecitazioni alla loro lettura, non corrisponde un coerente codice di interpretazione. Come in un coro dove tutti cantano seguendo però partiture, tempi e modalità personali. Nel secondo caso, invece, ci si deve confrontare con un’azione deliberata, dove l’obiettivo razionale, benché mai dichiarato, è quello di creare disorientamento, fingendo tuttavia di avere offerto conoscenza. Mai come in questi ultimi tempi le cosiddette “bufale” hanno trovato una così larga diffusione nel web e sui social network. A volte sembrano costituirne quasi l’essenza. Si tratta di una sorta di concatenazione senza fine di raffigurazioni più o meno verosimili, cioè plausibili in quanto apparentemente simili al vero ma in sé, ossia nella loro intima natura, non vere; come tali, spesso anche ad un primo, superficiale riscontro, destinate a risultare infondate. Alla forza dell’informazione, da che gli uomini sono entrati in relazione gli uni con gli altri, ha sempre fatto riscontro quella della disinformazione. Non è poi sempre così agevole capire dove finisca l’una e inizi l’altra perché non solo i fatti possono prestarsi ad interpretazioni diverse ma richiedono, per essere compresi, di venire contestualizzati. Non è una cosa comunque agevole. Tuttavia, quando si parla di manipolazioni, e con esse, in immediato riflesso, di disinformazione, non ci si riferisce di certo a legittime discriminanti di giudizio o a diversi gradi di opinione. Ciò che risulta dalla manipolazione è infatti il frutto di una deliberata distorsione di uno o più dati di fatto. Non quindi del giudizio che si formula su di essi quanto, semmai, della loro stessa natura in origine. Siamo in questo caso su un altro pianeta, dove entra in gioco l’intenzionalità di orientare le condotte altrui influenzandole con false dichiarazioni. E non è un caso se il pregiudizio, in qualunque cosa consista, per continuare ad esistere necessiti di essere adeguatamente ingrassato dal ripetersi ossessivo delle deliberate distorsioni. Per più aspetti è pregiudizio stesso il risultato dello stratificarsi di mistificazioni, falsi convincimenti, fittizie comunicazioni, il tutto però alimentato da un terreno pronto ad accoglierne i velenosi frutti. Poiché laddove non sussista qualcuno disponibile a fare proprio il messaggio distorto, quest’ultimo non produce effetti duraturi. In altre parole, affinché il pifferaio possa raggiungere il suo obiettivo necessitano schiere di creduloni. I quali invocano “chiarezza” quando in realtà cercano il conforto della ripetizione rassicurante, dell’ovvietà semplificatoria, della reiterazione ossessiva. In una parola: della banalizzazione in quanto regime di falsa consapevolezza. Come già si è avuto modo di dire di altre situazioni, anche in questo caso non ci troviamo dinanzi ad un difetto di conoscenza, colmato il quale le “cose si aggiustano”, bensì ad una visione tanto alterata quanto alternativa dei fatti della vita. Alterare, infatti, è sempre funzionale a dare sostanza ad una concezione alternativa del mondo. Quella che deriva dal bisogno stesso di convincersi che le cose stiano in un certo modo, in accordo con le aspettative di fondo che si nutrono, e non per come esse si presentano a noi qualora si abbia il coraggio di osservarle per davvero nella loro essenza, evitando il filtro dell’ottundimento del giudizio. Rimaniamo nel campo del pregiudizio, non a caso, che nelle società moderne ruota intorno non all’assenza di dati ma alla loro distorsione. È peraltro ben risaputo come molti conflitti armati si alimentino anche e soprattutto del ricorso all’ampia strumentazione della mistificazione simbolica. Una guerra, quindi, non è solo quella che si combatte sui campi di battaglia ma l’insieme di azioni, di affermazioni, di dichiarazioni che influenzano il costituirsi di un’opinione condivisa laddove vi siano interessi contrapposti che non si intende mediare. Né ora né mai. Nella manipolazione e nelle “bufale” quello che però conta, è bene ripeterlo, non è solo l’alterazione dei fatti bensì la disposizione d’animo dei tanti nel continuare a credere che in ciò riposi la “verità”, anche davanti a ripetute smentite, a convincenti rettifiche, a chiarificazioni incontrovertibili e così via. Poiché il meccanismo che è chiamato in causa non è quello della conoscenza ma della credenza. Chi vi si rifà non intende sapere. Semmai vuole essere confortato in quanto ritiene di conoscere già a fondo, senza necessitare di ulteriori riscontri. Il dovere invece riconoscere che non sa, ovvero che ciò che reputa che sia “vero” non corrisponde alla realtà, gli risulterebbe altrimenti come uno sforzo intollerabile, poiché è qualcosa che ne mette in discussione l’identità stessa. Siamo nel campo del fideismo, che è tanto più potente quanto serve a preservare un inconfessabile motivo di fondo, ossia che la menzogna surroga la libertà. Il corredo alle false credenze è sempre e comunque l’anti-intellettualismo, l’atteggiamento che guarda con sospetto, se non con avversione, a qualsiasi approccio critico alla realtà. Il fideismo, che viaggia in coppia con il fanatismo, non può tollerare una visione pluralistica del mondo e, con esso, delle innumerevoli informazioni che vengono prodotte (e consumate) quotidianamente. Il catalogo di atteggiamenti al riguardo è tanto ampio quanto noto: dal sospetto sistematico verso qualsiasi discorso che non sia un rafforzativo dei convincimenti che ciecamente si nutrono (“ci vogliono ingannare”; “intorbidano le acque con discorsi difficili”) fino alla concezione paranoide, che imputa a qualsiasi opinione dissonante la natura di minaccia interna, da eliminare alla radice perché fonte di divisioni e, in prospettiva, di disintegrazione dell’identità collettiva. Del pari alla paranoia clinica, negli individui come nelle comunità in cui si manifesta una tale visione alterata delle cose del mondo, si accompagna al senso di vittimismo che ne costituisce un corredo indispensabile, legittimando un’aggressività sistematica motivata dall’idea delirante di essere perennemente perseguitati. Le cosiddette “bufale”, in questo contesto, assumono allora un significato particolare, non meno che tenace, divenendo il corrispettivo moderno della visione magica ed infantile del mondo. Sono la negazione della democrazia tanto più quando esse si presentino sotto l’aspetto suadente e seduttivo di quella particolare forma di partecipazione all’immaginario collettivo che è la “denuncia”. Il web è costellato di richiami allo scalpore, all’invettiva, al clamore che vengono alimentati da continui atti di accusa nei confronti di presunti complotti, catenacci di potere, azioni clandestine di gruppi d’interesse e quant’altro. Al conflitto tra interessi contrapposti si sostituisce l’ordalia, la lotta tra bene e male, lo scontro a somma zero. Vi sono organizzazioni e movimenti che costruiscono le loro fortune sulle retoriche dell’autenticità. Laddove queste ultime, alla prova dei riscontri, sono autentiche mistificazioni che si presenta come azione di falsa demistificazione. Si tratta, ciò che da esse è prodotto, di un rumore maniacale, come quello del martello pneumatico che, fingendo di scavare nel sottosuolo per fare vedere a tutti di che cosa è composto “ciò che sta sotto” in realtà solleva solo la polvere. Con una folla di astanti che, inebetita, continua imperterrita ad osservare il vuoto pensando che sia un pieno di significati. A rigore di metafora, a forza di scavare non si va verso la conoscenza ma si sprofonda in un abisso di oscurità. Ed i primi a finirci dentro, se ne può stare certi, sono i servi sciocchi del delirio a basso prezzo, quello per l’appunto della banalità al potere quand’essa si finge critica del potere, essendone invece il suo occultamento.
Claudio Vercelli