Dopo 15 anni ogni cosa è ancora illuminata

Schermata 2016-08-23 alle 12.48.39Piccoli occhiali tondi sul naso, una ricca collezione di camicie a quadri e quadretti, sguardo meditabondo, battaglie ecologiste, una discreta spocchia. Jonathan Safran Foer, giovane e schiva star della letteratura contemporanea, incarna in modo ineccepibile l’esempio massimo di hipster newyorkese – pardon, di Brooklyn. Autore nel 2002 del best seller Ogni cosa è illuminata all’età di soli 25 anni, seguito tre anni dopo dall’altrettanto acclamato Molto forte, incredibilmente vicino, e poi per 11 anni più di nessun romanzo ma solo di Se niente importa, un saggio sulla realtà degli allevamenti americani che ha fatto diventare vegetariano mezzo mondo, e qualche altra stravagante opera, sulla sua carriera le idee dei critici e del pubblico sono generalmente molto chiare, molto in positivo o molto in negativo. Qualcuno vede in lui una figura geniale, faro di una nuova generazione di giovani letterati che si affranca dagli standard del secolo scorso e trova nuovi strumenti espressivi innovativi e post-moderni. Qualcuno invece pensa che al contrario sia un abbaglio, uno che si crede il nuovo Philip Roth senza essere Philip Roth, nettamente sopravvalutato. Quanto alla sua persona, quello che invece in pochi apparentemente si sono chiesti è se questa sua figura di quasi quarantenne dalla vita in modo tanto perfettamente e ostentatamente radical chic da sembrare quasi irreale sia autentica o un personaggio raffinatamente costruito.
Si può scavare quanto si vuole nella vita di Safran Foer, ma anche quando sembra che si stia per coglierlo in fallo, lui non si contraddice mai. Iniziando dalla famiglia. Jonathan è nato a Washington nel 1977, enfant prodige in una famiglia di enfant prodige. I suoi due fratelli, figli di Albert Foer, avvocato, e Esther Safran Foer, figlia di un sopravvissuto alla Shoah arrivato negli Stati Uniti dalla Polonia, sono infatti il più grande Franklin Foer, giornalista di The New Republic e il più piccolo Joshua Foer, scienziato e campione di memoria, che ha scritto pure un manuale su come ricordare tutto. Alla fine degli anni ’90 Safran Foer non poteva che iscriversi alla facoltà di filosofia di Princeton, dove ha frequentato un corso di scrittura creativa che lo ha – verbo quanto mai adatto – illuminato. La sua maestra nonché scopritrice è stata nientemeno che Joyce Carol Oates, la quale dopo qualche settimana dall’inizio del semestre gli ha detto che la sua scrittura aveva “la più importante delle qualità, l’energia”. “Fu una rivelazione”, ha detto Safran Foer in un’intervista rilasciata al New York Times nel 2005. “Non mi era mai passato per la testa che esistesse qualcosa che si potesse definire come ‘la mia scrittura’”. E così la ‘sua scrittura’ è diventata anche la ‘sua carriera’, ma anche lì, a quanto afferma non è mai stata tanto un lavoro (e del resto ha rifiutato il compenso di diversi premi letterari) quanto una sorta di ricerca del senso della vita. “Perché scrivo? Non è che voglia che le persone pensino che sono intelligente, o nemmeno un bravo scrittore. Scrivo – aveva affermato – perché voglio porre fine alla mia solitudine. I libri rendono meno soli. Ci mostrano che le conversazioni sono possibili anche attraverso la distanza”.
Per passare quindi alle opere di Jonathan Safran Foer, Ogni cosa è illuminata racconta in forma complicatamente romanzata – nel senso che coinvolge quattro diversi piani narrativi – la storia di suo nonno materno, e tra l’altro una prima versione era la sua tesi di laurea a Princeton. La trama si sviluppa a partire dalle ricerche del personaggio dello scrittore Jonathan di uno shtetl perduto dell’Ucraina – che corrispondono a quelle dell’omonimo autore – per trovare una donna che crede abbia salvato suo nonno dai nazisti. “Deve esserci una parola che indica quello che uno sente di aver sempre saputo ancor prima di averlo imparato. E una per quelle cose che sono centrali nella propria vita senza averle mai pensate o provate”, affermava Safran Foer spiegando la rivelazione che ha costituito la scoperta della storia di suo nonno Louis Safran, mai conosciuto, che perse la sua prima moglie e una figlia piccola durante la Shoah.
Così riflessivo Jonathan lo è diventato, come i più freudiani avranno predetto, dopo un trauma infantile, un esperimento nell’aula di scienze delle elementari esplosogli in faccia, in seguito al quale ha avuto un esaurimento nervoso. Se la storia suona famigliare è perché ricorda quella di Oskar Schell, il novenne protagonista del suo secondo romanzo, Molto forte, incredibilmente vicino. Dopo la morte del padre al World Trade Center l’11 settembre, Oskar si rifugia nel suo mondo di creative invenzioni per proteggersi da ognuna delle sue molte fobie. Nel processo diventa una specie di artista dai sogni complessi e fantasiosi, che si riflettono nella struttura del romanzo stesso, contenente foto e giochi tipografici che vogliono ribaltare un po’ i tradizionali rapporti tra immagine e testo. Il libro nasce da un’insoddisfazione dell’autore sul modo di raccontare gli eventi del mondo: “Scrivo sempre per il bisogno di leggere qualcosa, più che di scrivere qualcosa. Con l’11 settembre in particolare avevo bisogno di leggere qualcosa che non fosse politicizzato o commercializzato, che non avesse messaggi ma solo umanità”.
Ma anche in questi meno produttivi 11 anni, Jonathan Safran Foer non si è mai smentito. La pubblicazione della sua edizione della Haggadah di Pesach, ad esempio, è legata un po’ all’ideale della libertà che essa rappresenta, ma anche a una sua personale concezione della religione. “Sono interessato al tipo di religione che rende la vita difficile, non a quella che conforta. Una religione che mi obbliga a pormi domande difficili: ‘Chi sono davvero? Sono la persona che volevo essere’?”. E del resto anche Se niente importa non dice esplicitamente ai suoi lettori di diventare vegetariani, ma interpella le loro coscienze. Inoltre, rientrano perfettamente nel quadro del genio hipster anche la compilazione del libretto di un’opera e la creazione di una specie di libro-opera d’arte, Tree of Codes (2010), nata dal taglio, in senso letterale, delle parole del suo libro preferito, Le botteghe color cannella di Bruno Schulz.
Persino nei dettagli apparentemente più insignificanti Safran Foer riesce a non smentirsi. Il suo ufficio a Brooklyn ad esempio, oltre a essere privo di qualsivoglia telefono, è da lui enigmaticamente considerato “un posto dove posso non scrivere”. E non ha deluso neanche nella svolta della sua vita sentimentale, cioè il divorzio con la collega scrittrice Nicole Krauss con cui sembrava avere la vita perfetta, con il mondo che sognava immaginandoseli a bere tisane organiche all’alba (la sua sveglia suona alle quattro tutte le mattine) sulla loro terrazza di Brooklyn mentre creavano le loro opere su vecchie macchine da scrivere e i loro due pargoletti se ne stavano quieti con i loro giocattoli di legno. Quando è stato visto in coppia con la bella attrice Michelle Williams sembrava proprio che avesse cambiato rotta, e invece niente, sono stati nominati la “most bobo Brooklyn couple ever” da Vanity Fair. Per non parlare della sua misteriosa relazione epistolare con Natalie Portman appena venuta alla luce. E poi non si può non citare la sua collezione di fogli bianchi provenienti dalle scrivanie di vari scrittori. E insomma, è facile rimanere imbrigliati nel fascino intellettualoide di Jonathan Safran Foer. Ma lui mette in guardia: “Non sono simpatico. Le persone immaginano che dal momento che i miei libri sono divertenti, lo sarò anche nella vita vera. È inevitabile la delusione nell’incontrarmi”.

Francesca Matalon, Pagine Ebraiche agosto 2016

(23 agosto 2016)