Ogni cosa è sfrontata.
E Safran Foer rompe il silenzio
Il nostro orizzonte è lontano, talvolta incerto. Eppure è anche terribilmente vicino, lo possiamo raggiungere con le mani. E a volte ci opprime. Perché l’orizzonte ebraico non è mai la prospettiva dell’isolamento volontario, ma prende il nome della prima aggregazione sociale, la famiglia. E ci parla di famiglia, ancora di famiglia, forse sempre di quella a lui vicina, forse di quella di tutti noi, forse della grande famiglia allargata in cui sono immersi insieme i destini di tutti coloro che con l’identità ebraica coltivano un legame, il nuovo grande romanzo di Jonathan Safran Foer che attende il lettore italiano al rientro dalle vacanze.
Tutto lascia pensare che quando entrerà nelle librerie italiane il prossimo 29 agosto, gli italiani reduci dall’ultimo fine settimana del grande esodo dalle città e ancora desiderosi di quel ristoro che solo la letteratura è capace di donare si troveranno a un avvenimento. Jonathan Safran Foer, il giovanissimo enfant prodige che aveva fatto sognare la generazione di un mondo intero con il suo memorabile Ogni cosa è illuminata, poi ancora con la felice riduzione cinematografica della sua stessa opera prima, poi ancora per il suo impegno civile e sociale nel raccontare i dilemmi del mondo occidentale di fronte al terrorismo e allo sfacelo ambientale dell’alimentazione massificata e alla crudeltà dei mattatoi, ha atteso dieci lunghi anni di silenzio prima di riprendere la parola. Un divario temporale enorme, per un giovane, geniale scrittore. Proprio il tempo per domandarsi se alle prime straordinarie opere uscite di getto dalla prima età consapevole sarebbe seguito qualcosa di proporzionato, oppure, come talvolta avviene, se il genio di una volta non si sarebbe stemperato, dissolto nella banalità della riproduzione di se stessi e delle proprie maniere narrative, ridotto al solo desiderio frustrato di mantenersi all’altezza della propria fama. Con il suo Eccomi, che l’editore Guanda ha il privilegio di mandare in libreria, nella sensibile versione italiana di Irene Abigail Piccinini, prima ancora della grande passerella nelle librerie anglosassoni e sui mercati di tutto il mondo, Safran Foer riesce nel piccolo miracolo di non raccontarci niente di nuovo e di sovvertire, di risvegliare in un diverso formato, di donare una dimensione ulteriore a tutto quello che già sapevamo.
C’è l’idea di essere ebrei. Lo stesso titolo non è altro che una citazione biblica e rende in una sola parola di tre sillabe tutto il dramma della risposta di Abramo chiamato dal Cielo e sconvolto nel suo ruolo di padre, lacerato, infine travolto e abbandonato nell’assumersi una responsabilità in ogni caso più grande di lui: quella del figlio, di Isacco che per primo dona al primo ebreo il primo significato di una discendenza ebraica.
C’è la famiglia, nelle vicende di famiglie a noi terribilmente vicine, divise fra un Israele perpetuamente minacciato dalla guerra e dalle catastrofi (nel romanzo l’ambientazione fantastica si spinge a prefigurare guai molto grandi in Medio Oriente) e una quotidianità nel mondo occidentale perpetuamente minacciata dall’inconsapevolezza e dalla superficialità.
C’è il passaggio obbligato, inevitabile, necessario e al tempo stesso insopportabile attraverso i legami della famiglia e del clan.
C’è il sesso, la morte, la passione, il disgusto, l’esasperazione, il riso, la speranza. E più di tutto c’è quello che forse ci aiuta a sopravvivere, ad assumerci con una certa leggerezza responsabilità schiaccianti, ad accettare il nostro destino: quel senso dello spirito, quella capacità di vedere i fatti e le situazioni dall’esterno e al tempo stesso dall’interno, di ironizzare, di ridere, che secondo resta la pietra angolare del senso dello spirito, della capacità di ridere anche delle tragedie, di tollerare le infinite differenze, le situazioni e le persone che non ci è dato comprendere con l’intelletto.
Forse è proprio il nostro senso dello spirito quello che ci fa sopportare la nostra sofferenze e che ci fa sopportare la nostra capacità di far soffrire, consapevolmente o inconsapevolmente, gli altri. Non è necessario svelare molto di più di un romanzo poderoso (oltre 660 pagine, che i curatori italiani hanno dotato di un opportuno e ricco glossario delle terminologie ebraiche e yiddish trascinate nel fiume del racconto). Basti dire che ci attende un libro comunque importante, sul quale sarà necessario tornare ancora più volte e a più voci, e anche controverso. Forse il libro di una nuova generazione che attendeva l’arrivo del proprio turno per prendere il posto di quella classe di lettori inevitabilmente segnata dal Lamento di Portnoy di Philip Roth. Proprio di Roth, Safran Foer ricorda a suo modo e senza mai piegarsi agli stereotipi di un identitarismo ebraico americano manierato, non solo la vivacità, l’oscuro lato di sofferenza che si nasconde dietro un senso dell’umorismo incontenibile, ma anche e soprattutto la sfrontatezza, l’impudicizia di dire al lettore: adesso parliamo di noi e di quello che è vero per noi. E ridiamoci sopra per poter andare avanti. Proprio come Roth, Safran Foer pretende a suo modo di chiamare ogni cosa con il proprio nome senza spiegare nulla. Perché l’identità e la memoria, in definitiva, così come la letteratura, sono solo un sistema per rimettere le idee in ordine.
g.v., Pagine Ebraiche agosto 2016
(23 agosto 2016)