Il futuro della lingua, fra tecnologia e creatività
L’ultima invenzione viene, come spesso accade, dalla fucina tecnologica di Mountain View: una app di Google Translate che permette di fotografare e tradurre all’istante insegne, menù, cartelli stradali. Niente più dizionari tascabili per decifrare la listi dei dessert in un ristorante di Budapest o le indicazioni in cirillico sulle strade di Mosca: d’ora in poi saranno sufficienti un paio di ditate sul touchscreen per evitare un dolce con troppa cannella o di finire sulla Piazza Rossa anziché davanti al Bolshoj. Ancora più stupefacente il traduttore vocale universale “indossabile” (si porta appeso al collo) denominato ILI, appena premiato con l’Innovation Award al CES di Las Vegas, che consente di comunicare direttamente in un altro idioma anche senza conoscerlo come nei vecchi telefilm di Star Trek. L’italiano per il momento non è compreso tra le lingue disponibili nel bouquet, ma non è forse lontano il momento in cui riusciremo finalmente a rimorchiare aitanti tedeschi o formose spagnole senza dover far ricorso al nostro patetico inglese da spiaggia. La questione, a questo punto della storia, non sembra infatti più essere il “se”, ma il “quando”. Sul fatto che prima o poi i traduttori automatici potranno sostituirsi in tutto e per tutto all’uomo ormai pochi nutrono dubbi, e se ciò accadrà a quel punto probabilmente anche gli interpreti saranno rimpiazzati in cabina dalla voce di un computer, capace magari anche di tenerci compagnia e regalarci calore umano come nel visionario film di Spike Jonze, Her, e magari subito dopo sarà la volta di un software in grado di scrivere (e tradurre) senza il nostro aiuto post perfetti, verbali perfetti, libri perfetti. Uno studio pubblicato qualche mese fa sulla rivista Science illustrava il funzionamento di un nuovo algoritmo induttivo che permetterà ai computer di apprendere nuove nozioni sulla base di un numero limitato esempi e di applicarle in maniera creativa e non meccanica alla realtà, generando ulteriori esempi potenzialmente infiniti e ogni volta diversi. Tutt’altra cosa, insomma, rispetto ai software convenzionali, la cui capacità creativa è direttamente proporzionale al numero di esempi con cui sono programmati. Per il
momento questo algoritmo è in grado soltanto di riscrivere un carattere – lettera o cifra – in un numero infinito di modi differenti, ma una volta individuato il principio, è poi così azzardato immaginare un algoritmo un po’ più raffinato capace di agire sui significati oltre che sulle forme? E una volta che quell’algoritmo dovesse essere effettivamente ideato, non si potrà a quel punto affermare che avremo creato una macchina in grado di pensare? In un’intervista del 2015, Ray Kurzweil, uno dei guru dell’intelligenza artificiale, fissava all’anno 2029 la data entro cui i computer saranno in grado di ragionare come gli esseri umani, forse persino meglio. Al di là delle innumerevoli questioni filosofiche che un simile scenario porrebbe (quando i computer avranno imparato a pensare, ci sarà ancora bisogno che lo facciano gli umani? I robot prenderanno il nostro posto come nei romanzi di Asimov? O piuttosto ne approfitteremo per riprogrammare la nostra mente in modo da renderla capace di pensare e memorizzare i concetti in maniera più rapida ed efficiente rincorrendo ed emulando a nostra volta l’intelligenza artificiale? In quel caso, potremo ancora definirci uomini?), c’è in ballo tutta una serie di questioni pratiche che toccano, tra gli altri, tutti coloro che in qualche modo vivono grazie alle parole, in primis traduttori e interpreti, ma in certa misura persino poeti e narratori. Bello consolarsi con certe memorabilia partorite da Google Translate (la menta dello sciroppo che diventa “lies”, il tè al limone reso con “the to the lemon”, e via equivocando) coltivando l’intima certezza che i computer non sapranno mai emulare quella componente di creatività, di improvvisazione, di casualità, di fallibilità e soprattutto di emotività che caratterizza il linguaggio umano. Ma se poi succede? Per quale committente – editore, agenzia o privato – varrebbe ancora la pena di investire un euro in traduzione il giorno in cui un computer fosse in grado di produrre una metafora, cogliere un’ironia o scrivere in preda alla commozione? In attesa che ciò accada, le macchine si limitano oggi a esercitare un governo indiretto della lingua tramite i motori di ricerca, che sono diventati la principale e più utilizzata fonte di norma grammaticale e di usi linguistici. Se non mi ricordo come si scrive “qual è” o se è meglio dire “accendere un mutuo” o “aprire un mutuo”, spesso non mi affido più a grammatiche e dizionari, ma all’amico su Facebook o al compagno di chat, che se scrive qual’è anziché qual è avrà ben le sue ragioni. E del resto se la società si è progressivamente fatta liquida, dovremo forse abituarci all’idea di una lingua liquida, in cui a fare giurisprudenza grammaticale non sarà più l’auctoritas di turno, bensì Google. Il che sarà forse anche il nostro destino, ma risulta difficile immaginarlo come un progresso.
Andrea De Benedetti, linguista