Gene Wilder (1933 – 2016)
Il suo urlo “si… può… fa-re!” (“It could work, nella versione originale) in Frankestein Junior è una di quelle scene che rimarrà per sempre nella storia del cinema. Così come la sua interpretazione dell’eccentrico Willy Wonka in La fabbrica di cioccolato o del paranoico e impacciato Leo Bloom in Per favore, non toccate le vecchiette (The Producers). Gene Wilder è scomparso ieri all’età di 83 anni ma i suoi film, come dimostrano le tante testimonianze di affetto di queste ore, continueranno ad accompagnarci. Molte le classifiche delle scene migliori dei suoi film pubblicate dai quotidiani internazionali e sui social network – oltre a quelli già citati, Mezzogiorno e mezzo di fuoco, Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere), Nessuno ci può fermare, sono i più gettonati – a dimostrazione di quanto l’ironia di Wilder, figlio di una coppia di ebrei polacchi (la madre) e russi (il padre), sia diventata famigliare per milioni di persone. Un’ironia mai volgare, anche quando spinta, velata di una malinconia che aveva radici lontane. E lo dimostrano le parole di Wilder – nato Jerome Silberman – ad Abigail Pogrebin, autrice di Stars of David: Prominent Jews Talk About Being Jewish, mentre spiega il perché del suo sentirsi ebreo. “Mi sento ebreo per l’amore e l’affetto dei miei genitori, perché loro mi hanno dato la sicurezza in me stesso. Se mia madre non avesse riso alle cose divertenti che facevo per lei, probabilmente non sarei mai diventato un attore comico. Dopo il suo primo attacco di cuore – racconta Wilder parlando della madre – il dottore disse ‘cerca di farla ridere’. E quella fu la prima volta che cercai di far ridere qualcuno”. Il giovane Jerome, poi Gene, all’epoca aveva 6 anni. La madre morirà otto anni dopo.
A Pogrebin, l’attore racconterà anche del suo rapporto con l’ebraismo durante l’infanzia. Iniziò frequentando in Wisconsin (stato nel nord degli Usa) un tempio ortodosso presieduto dal nonno paterno ma, trasferitosi in un nuovo quartiere di Milwaukee, il padre deciderà di andare in una sinagoga conservative. Sinagoga che Wilder frequenterà fino a un incidente diplomatico con il rabbino. “Tornai a visitare la mia famiglia a Milwaukee, a sentii quel rabbino ignorante dare la sua visione della guerra del Vietnam. Avrei voluto alzarmi in piedi e gridargli addosso. Poi pensai ‘metterei in imbarazzo mio padre’, così non feci nulla. Ma fu l’ultima volta che misi il piede in un tempio”. Rispetto al suo rapporto con la religione ebraica, l’attore spiegherà: “l’unico mio credo è Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te. Punto. Finito (battuta che rievoca una si Willy Wonka in La Fabbrica di cioccolato)”. “Non ho religione – continuerà Wilder – Mi sento ebreo e sono molto contento di esserlo. Ma non credo in Dio né in niente che ha a che fare con la religione ebraica”.
Eppure Wilder si troverà a recitare nelle parti di un rabbino nel film di Mel Brooks Scusi dov’è il West?: Avram Belinski, rabbino polacco che negli anni 50 dell’Ottocento attraversa il West, incorrendo in mille disavventure. Per la parte, l’attore si preparerà con l’aiuto di due rabbini e di un cantore. “Il cantore mi registrò le preghiere e dovevo studiarle in modo da essere in grado di cantarle. Ovunque andassi, portavo con me quelle registrazioni”. Alla domanda se vestire i panni di Avram Belinski, l’avesse fatto sentire pensare rispetto al fatto di essere ebreo, Wilder rispose che “la maggior parte delle cose vennero naturalmente. Ho scritto molto di quel film e mentre scrivevo pensavo ‘cosa sarebbe divertente che facesse un rabbino?’. Non “cosa sarebbe divertente che facesse un ebreo?’. Lo so che sembra la stessa cosa ma per me non lo è. Io sono ebreo quindi non mi devo chiedere ‘cosa farebbe un ebreo’?”.
Scusi dov’è il West? è uno dei tanti film che Wilder girò insieme a Brooks, icona della comicità ebraica di Hollywood. L’attore ricorda che durante le riprese, chiese aiuto al regista per un’interpretazione: la scena (nel video in alto) era quella del rabbino che corre verso un gruppo di amish (comunità di ispirazione anabattista diffusa negli Stati Uniti), scambiandoli per degli ebrei haredi, e a cui vuole raccontare le sue disavventure. “ ‘Mi hanno quasi ucciso, triturato, hanno preso a calci la mia kishke (in yiddish, sia una pietanza sia lo stomaco)’, come faccio a dirlo in yiddish?”, la domanda di Wilder a Brooks. “Devi dire, ‘G-gyhagen machin dyhuda yhiddina . . . !!’”. “Dissi a Mel, ‘aspetta, aspetta!’ e scrissi tutto. Se avesse senso o meno, non lo so”.
“Il mio lavoro era di rendere il suo humor più sottile” spiegò una volta Wilder parlando della comicità di Brooks, “mentre il suo lavoro era di rendermi più greve”. “Uno dei veri grandi talenti dei nostri tempi. – il ricordo affidato a Twitter del grande amico Brooks – Benedisse ogni film a cui lavorammo insieme con la sua magia e benedisse me con la sua amicizia”.
Daniel Reichel
(30 agosto 2016)