Periscopio
Paragoni impossibili
Ho appreso, poco prima della pubblicazione di questo pezzo, della scomparsa di Alberta Levi Temin, insuperabile faro di morale e cultura per generazioni di italiani. Non facendo in tempo a sostituire l’articolo consegnato, e riservandomi di dedicare alla grande Amica il mio contributo di mercoledì prossimo, Le rivolgo da queste colonne un affettuoso ringraziamento per tutto quanto mi ha insegnato.
In una mia recente nota, a proposito dei corsi sul sionismo organizzati dall’Area Cultura e Formazione dell’UCEI (quelli a me affidati, come ho detto, si svolgono a Firenze e Napoli), ho iniziato il discorso invitando a considerare un dato di fatto che, a mio avviso, dovrebbe fungere da presupposto per qualsiasi analisi e inquadramento del fenomeno, ossia la sua assoluta peculiarità e unicità nel pur variegato quadro delle varie vicende umane. Da qualsiasi angolazione lo si consideri (sul piano politico, storico, nazionale, culturale, religioso, identitario), il sionismo sfugge a paragoni con altri accadimenti a cui, per qualche aspetto, parrebbe talvolta somigliare, e ciò perché niente, come il sionismo, valica ogni recinzione in un definito perimetro spaziale e temporale, ma si espande, nello spazio e nel tempo, indefinitamente, coinvolgendo, sempre e dovunque, l’umana coscienza e volontà.
Consideriamo, per esempio, il sionismo dal punto di vista strettamente storico-politico, ossia come il Risorgimento nazionale del popolo ebraico, tendente a restaurarne la perduta sovranità nazionale, nella sua storica terra. Da questo punto di vista, indubbiamente, esso presenta delle considerevoli analogie con il Risorgimento italiano, che ha portato gli italiani, divisi in tanti Stati diversi, a unirsi, o riunirsi, in un’unica patria. Ma il Risorgimento italiano, qualsiasi cosa se ne pensi, è finito nel 1861 (o, secondo qualcuno, nel 1918), e oggi l’Italia, piaccia o non piaccia, è una semplice realtà, di cui bisogna solo prendere atto. E può dirsi “italiano”, oggigiorno, solo chi appartenga a tale popolo, indipendentemente da quello che pensi dell’Italia e del Risorgimento. Uno straniero che ami l’Italia non diventa certo, con questo, italiano, così come un italiano non cessa di essere tale se non apprezza il Risorgimento, e preferirebbe vivere in un’Italia divisa. Il sionismo, invece, non è certo finito nel 1948, anche se a pensarlo fu addirittura Ben Gurion, che disse, subito dopo la proclamazione d’Indipendenza, che ormai si poteva essere sionisti solo per il tempo necessario a prendere un aereo per Tel Aviv. Ma, su questo punto, il grandissimo leader si sbagliò, in quanto si illuse che la battaglia per l’indipendenza e la libertà di Israele fosse conclusa, e che ciò comportasse la naturale fine della diaspora. Non è andata così, sia perché la diaspora non è finita (e, probabilmente, non finirà mai, almeno per quanto sia umanamente possibile prevedere), e sia perché, soprattutto, la battaglia per la libertà e l’indipendenza di Israele non è certo terminata (e anche di tale battaglia non si intravede all’orizzonte una possibile fine).
Dicono i saggi che una sola lettera, una sola alef separa la parola gheulà, redenzione, da golà, dispersione. Basta poco, una sola lettera, ma quell’unica lettera indica trasformazione, metamorfosi, rigenerazione. E ciò è qualcosa che non riguarda solo gli israeliani, o solo gli ebrei, ma tutti gli uomini che davvero credano nella possibilità di effettuare una aliyah, una ‘salita’, che porti a un’autentica, vera libertà. Ecco perché chiunque può dirsi ed essere sionista, anche se non israeliano e non ebreo, e anche senza mai essere andato in Israele, né avere l’intenzione di andarci. Perché essere sionista non significa soltanto riconoscere e rispettare il riscatto del popolo ebraico, ma soprattutto credere che un riscatto, per tutti e chiunque, sia sempre possibile, e che per raggiungerlo occorra sempre un duro e costante impegno, interno ed esterno, che non può mai avere la parola ‘fine’. Ed ecco anche perché il sionismo, oltre ad affascinare tanti uomini, è così inviso a tanti altri.
Un Israele finalmente pacificato col resto del mondo significherebbe forse la fine del sionismo? Certamente no. Ma l’antisionismo non finirà se non insieme all’antisemitismo, di cui rappresenta, come tante volte detto, una delle mille maschere. La domanda, perciò, purtroppo, è quanto mai inattuale.
Francesco Lucrezi, storico
(31 agosto 2016)