Qui Venezia – Al via la Mostra del cinema
Leone d’Oro a Skolimowski:
“Mio pensiero va ai migranti”
“Nella maggior parte dei miei film mi sono occupato di outsider, le persone ai margini della società, chi viene definito perdente, chi non trova posto nel mondo. Anche io sono stato migrante, so come ci si sente quando si è costretti a lasciare il proprio paese. Quello dei migranti è uno dei problemi più importanti dei nostri tempi: queste persone meritano di essere guardate con empatia”. Con queste parole il regista polacco Jerzy Skolimowski ha accettato il Leone d’oro alla carriera della 73esima Mostra del cinema di Venezia, la cui consegna ha aperto ieri sera la manifestazione, che andrà avanti fino al 10 settembre. Nato a Lodz nel 1938, migrante Skolimowski lo è stato molte volte, la prima delle quali quando seguì sua madre a Praga dopo l’uccisione di suo padre, membro della Resistenza polacca, per mano dei nazisti. Il regista racconta di ricordare bene gli anni della guerra, quando fu estratto dalle macerie di una casa bombardata a Varsavia e finse per molto tempo di accettare caramelle dai nazisti per mantenere le apparenze mentre sua madre teneva nascosta in casa una famiglia ebraica. Skolimowski ha affermato che l’aver assistito ancora bambino alle brutalità del conflitto ha profondamente influenzato la sua opera.
Sono 17 i lungometraggi girati in 50 anni di carriera, che lo rendono secondo il direttore della Mostra Alberto Barbera “tra i cineasti più rappresentativi di quel cinema moderno nato in seno alle nouvelles vague degli anni Sessanta e, insieme con Roman Polanski, il regista che ha maggiormente contribuito al rinnovamento del cinema polacco del periodo”. Oltre a lui, anche quest’anno il mondo ebraico trova ampio spazio in Laguna, a partire dallo sguardo tutto speciale sul mondo ultraortodosso che la regista israelo-americana Rama Burshtein propone attraverso la lente inedita della commedia del suo Laavor Et Hakir -Through the Wall, per passare alla proiezione del celebre e romanticamente intramontabile Manhattan di Woody Allen, ma anche attraverso le storie ebraiche delle tante star che solcheranno il red carpet.
Tra queste ci sono ad esempio due attrici che portano nella categoria dei film in concorso rispettivamente un tocco sefardita e uno ashkenazita, da un lato all’altro della Manica. La prima è la francese Judith Chemla, che recita nella pellicola drammatica Une vie di Stéphane Brize, il cui padre fu uno dei tanti ebrei tunisini a lasciare il suo paese per trovare un futuro migliore oltremare. Nel film, ambientato nella Normandia del 1819, Chemla interpreta Jeanne, giovane donna innocente dai sogni infantili, che dopo gli studi in convento sposa un visconte del luogo, Julien de Lamare. Il quale ben presto si rivela un uomo gretto e infedele, e poco a poco vede Jeanne svanire le sue illusioni. La seconda è la britannica Rachel Weisz, che recita in The Light Between the Ocean di Derek Cianfrance, figlia di padre ungherese e madre austriaca che si trasferirono in Inghilterra allo scoppio della Seconda guerra mondiale per sfuggire alle persecuzioni naziste. Suo padre è infatti ebreo così come suo nonno materno, Alexander Teich, che fu segretario dell’associazione World Union of Jewish Students. Weisz, che si è in prima persona convertita all’ebraismo, nel film di Cianfrance interpreta una donna che stravolge la vita di Tom e Isabel, il guardiano del faro si una remota isola australiana e sua moglie, i quali avevano adottato una neonata misteriosamente arrivata dal mare su una barca alla deriva.
E la presenza ebraica femminile a Venezia si fa forte anche grazie alla presenza di Burshtein, che con il suo nuovo lavoro racconta la storia della 32enne Michal, ultraortodossa da quando ne ha venti, che non si rassegna quando il fidanzato la lascia nel pieno delle preparazioni del matrimonio, e invece di annullarlo si mette alla ricerca di un altro sposo. “Il risultato è di sicuro impatto. Anche per storia personale, Rama Burshtein è abilissima a decodificare il mondo ultra-ortodosso”, scrive Daniela Gross in questo notiziario. “In Laavor Et Hakir -Through the Wall torna sul tema del matrimonio che già aveva esplorato nel bellissimo La sposa promessa (2013), storia dolce amara di un matrimonio combinato. Questa volta però – osserva Gross – aggiusta il tiro e vira sui toni romantici della commedia, colmando così un vuoto nella filmografia sull’universo haredi di solito incline a indulgere sul dramma”.
Un altro spunto interessante, sempre nella sezione Orizzonti, viene anche dal film italiano Molly Bloom, di Chiara Caselli, un cortometraggio in cui riprende la parola la protagonista dell’ultimo capitolo dell’Ulisse di James Joyce. A calcare il red carpet della Biennale saranno infine anche gli attori di origine ebraica Liev Schreiber e Ron Perlman, per il film The Bleeder, di Philippe Falardeau, presentato fuori concorso. The Bleeder è la storia vera di Chuck Wepner, venditore di alcolici del New Jersey che resistette 15 round contro il più grande pugile di ogni tempo, Muhammad Ali, recentemente scomparso. La sua storia ha ispirato la serie Rocky, che ha registrato incassi record di miliardi di dollari. Nei suoi dieci anni sul ring Wepner subì due ko, otto rotture del naso e 313 punti di sutura. Ma le sue lotte più dure furono fuori del ring, dove condusse una vita epica fatta di droghe, alcol, donne spregiudicate, incredibili successi e drammatiche cadute.
Francesca Matalon twitter @fmatalonmoked
(1 settembre 2016)