Qui Ferrara – Libro ebraico in festa
Musei, memoria per il futuro
La tavola rotonda “Una memoria per il futuro: la missione dei musei ebraici” patrocinata dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo che è forse l’evento centrale del ricco programma della Festa del Libro Ebraico di Ferrara coordinata da Meis vedrà oggi confrontarsi i direttori di alcuni dei principali musei ebraici. Introdotti dal presidente della Fondazione del Museo dell’Ebraismo Italiano e della Shoah Dario Disegni e moderati dal direttore de La Stampa Maurizio Molinari, i relatori sono Paul Salmona, direttore Museo d’Arte e di Storia dell’Ebraismo di Parigi, Emile Schrijver, direttore generale Museo Ebraico di Amsterdam, Orit Shaham Gover, responsabile del Museo delle Diaspore di Tel Aviv e Dariusz Stola, Direttore di Polin, il Museo di storia degli Ebrei Polacchi di Varsavia, insieme alla padrona di casa, il direttore del Meis Simonetta Della Seta. Polin e il Joods Historisch Museum di Amsterdam sono tra i protagonisti del dossier “Musei”, attualmente in distribuzione con il numero di settembre di Pagine Ebraiche, riproponiamo qui gli articoli che li riguardano.
Polin getta le basi della didattica
La struttura minimalista di Polin, il Museo della storia degli ebrei polacchi aperto a Varsavia nel 2013 dove una volta si trovava il ghetto, opera dei finlandesi Rainer Mahlamäki e Ilmari Lahdelma, è di grandissimo effetto e ha un ruolo non marginale nell’attrarre il flusso costante di visitatori che ne ha rapidamente decretato il successo. Con la sua entrata che ricorda una grande caverna, mura ondulate di vetro e cemento, spazi vuoti a simboleggiare il destino degli ebrei polacchi e una gola a ricordare l’attraversamento del Mar Rosso, Polin ha vinto premi internazionali di architettura, ma sono la competenza e l’energia di direttore e curatori a farne un museo speciale. Dal direttore, lo storico Dariusz Stola – invitato a Ferrara per il convegno “Una memoria per il futuro: la missione dei musei ebraici” organizzato dal Meis – che ha pubblicato una decina di volumi e numerosi articoli sulla storia degli ebrei polacchi e insegna all’Università di Varsavia, a tutto il board, le energie e l’entusiasmo di tutti, che si aggiungono a preparazione e competenza invidiabili, sono evidenti. Barbara Kirshenblatt Gimblett, per molti anni docente di Cultura ebraica dell’Europa dell’Est alla New York University, che oggi affianca il direttore ed è responsabile della collezione principale del museo, spiega che “La Polonia di oggi è una totale anomalia. Il Paese non è mai stato così omogeneo, sia dal punto di vista linguistico che etnico”. La storia polacca è di grandissima diversificazione, forse più che in qualsiasi altro paese europeo: come ricordato dal regista Andrzej Wajda in occasione dell’inaugurazione “La Polonia era un paese multinazionale. Ora con Polin quel mondo antico è nuovamente davanti a noi. E in questo momento è più necessario che mai”. Non si trattava solo di popolazione ebraica, ma non va dimenticato che nel 1939 gli ebrei polacchi erano tre milioni e mezzo. A Varsavia si trattava del trenta per cento della popolazione. Ora i pochissimi rimasti sono prevalentemente assimilati e proprio per questo, spiega il presidente dell’Association of the Jewish Historical Institute of Poland Piotr Wislicki, l’ebraismo non è parte della vita quotidiana per la maggior parte dei polacchi. Il Museo, nato da un’iniziativa congiunta del Ministero della Cultura, della Città di Varsavia e dell’associazione presieduta da Wislicki, racconta la storia di un Paese intero, quasi a confermare la risposta di Marek Edelman a chi gli chiedeva perché considerava necessaria e importante la progettazione e poi l’apertura di Polin: “Perché è necessario? Perché è storia della Polonia”. Fortissimo nella sua impostazione pedagogica ed educativa, soprattutto per quanto riguarda il percorso della collezione permanente, suddiviso in sette sezioni che corrispondono ad altrettanti periodi storici, il museo ha ricevuto apprezzamenti
da studiosi ed esperti di tutto il mondo. E sono sette, come le sezioni della permanente, i principi pedagogici che Barbara Kirshenblatt Gimblett ritiene fondamentali per la buona riuscita di un progetto museale, che ha individuato confrontandosi con i colleghi. “Innanzitutto va ricordato che la struttura stessa di un museo ha una valenza pedagogica forte: l’architettura parla, è fondamentale. Il visitatore vive un’esperienza in un certo senso opposta a quella che si esperisce al cinema, dove si sta fermi e la storia si svolge davanti a noi: in un museo è il nostro movimento nello spazio che ci porta a scoprire la storia che vi è narrata, sono le nostre scelte di avanzare o soffermarci in un luogo oppure in un altro che condizionano quello che porteremo a casa a fine visita. Il rapporto del corpo con lo spazio, che è poi l’essenza dell’architettura, è fondamentale. E in Polin ne abbiamo un esempio straordinario. Come penso sia straordinario il fatto che la visita si concluda in uno spazio dedicato al silenzio, e questo è il secondo principio: la visita, e la storia stessa portano a riflettere, a confrontarsi con quello che si è visto, appreso, scoperto. Il percorso deve creare una tensione costante fra la soggettività e l’oggettività, fra l’esperienza di chi c’è stato e la ricerca degli storici, perché il lavoro degli studiosi deve comunque permettere un ancoraggio emozionale”. Proprio per questo, continua, la collezione comprende oggetti reali, veri, che permettono una esperienza concreta e tattile, fondamentale per il percorso educativo. “La materialità prova immediatamente che si tratta di vite reali, oltre a dare oggettività alle prove storiche concretizza la storia, porta a un approccio immediato alla realtà. Così come di grande impatto è l’installazione che ha più successo: abbiamo creato una sorta di torre di fotografie, che ritrae centinaia di persone poi morte per mano nazista. Ma quando sono state scattate le immagini non sapevano cosa sarebbe successo. Nessuno di loro è un numero, nessuno sa che sta per morire, questa consapevolezza l’abbiamo lasciata a chi guarda. E non abbiamo mai accettato l’idea di aderire al racconto della Shoah come eroismo, come invece succede a volte in Polonia”. Un lungo silenzio. Poi aggiunge, secca: “Chi visita il museo e di fronte alla storia che vi è narrata e davanti alle immagini di coloro che sono morti non riesce a trascendere la connotazione ebraica delle vittime per estendere la propria emozione al genere umano io credo abbia un serio problema morale”.
“Io chiedo”
L’investimento massiccio nella formazione e nell’educazione che da anni è uno dei punti forti del Joods Historisch Museum, il museo ebraico di Amsterdam, è evidente a chiunque ne varchi le porte. Fondato nel 1930 “per raccogliere e presentare tutto ciò che compone un ritratto della vita ebraica in generale e della vita ebraica olandese in particolare”, ospita una grande collezione di oggetti e un centro informazioni dotato di più di 40 mila volumi, documenti, immagini e audiovisivi. La permanente, dedicata alla storia degli ebrei nei Paesi Bassi, è affiancata da mostre che spaziano da “Amy Winehouse: un ritratto di famiglia” a “Il potere delle immagini”, dedicato ai primi film e alle prime fotografie dell’era sovietica. Per ognuna è previsto un percorso specifico per bambini in cui Max, il personaggio dalla testa di azzima è guida esperta e amichevole. Il museo ha curato anche Io chiedo, di Petra Katzenstein e Irith Koster, una guida che vuole spiegare “come può un museo trovare una maniera rispettosa di incoraggiare i visitatori ad aprirsi a cose che non sono per loro familiari e che potrebbero addirittura essere in conflitto con le loro idee”. I ASK (questo il titolo originale del volume) è anche un programma di formazione sull’influenza che un museo può avere nel promuovere l’apertura nei confronti della diversità, investendo in coloro che conducono le visite guidate, o che hanno qualsiasi interazione con i visitatori.
Ada Treves, dal dossier Musei
Pagine Ebraiche, settembre 2016
(4 settembre 2016)