Caffé Odessa, viaggio tra le note ebraiche
È un viaggio tra tempi e luoghi diversi per scoprire l’intreccio tra musica, identità ebraica e lingue dell’ebraismo. Si tratta del Caffè Odessa portato in scena da Miriam Camerini, Manuel Buda e Bruna Di Virgilio, spettacolo che chiuderà l’intensa Giornata della Cultura ebraica a Milano. Dall’ebraico, all’yiddish al ladino, le note accompagneranno il pubblico nei diversi angoli del mondo della diaspora ebraica grazie al progetto ideato e diretto da Camerini.
Sei nata a Gerusalemme, ma italianissima di formazione. Nei tuoi spettacoli attingi da un bel melting pot ebraico, dalla cultura aschenazita a quella sefardita agli Stati Uniti. Ci racconti il tuo percorso?
Ho vissuto a Gerusalemme un anno e poco più, quando ero piccolissima, perché vi si erano trasferiti i miei genitori, facendo l’Aliyah. Ma sono cresciuta, anche artisticamente, a Milano, e in Israele sono tornata a vivere solo nel 2007, per circa quattro anni, per poi ristabilirmi in Italia, fatto salvo il mio costante girovagare.
In Israele ho lavorato come direttrice di produzione in una compagnia teatrale, la Jerusalem Theatre Company, che fa un lavoro per così dire laico, ma su testi della tradizione. Al contempo, studiavo Talmud e ho iniziato a maturare l’idea di coniugare l’arte, il teatro, con la religiosità, l’osservanza.
Ho lavorato su diversi testi ed elementi culturali, soprattutto di matrice aschenazita: il Golem, alcuni testi di Elie Wiesel… nell’universo ebraico dell’est Europa trovo forme di fede, gioia e partecipazione davvero bellissime.
Infatti, nonostante la tua poliedricità, sembri più affascinata dall’universo aschenazita che da quello sefardita. Cosa ti attrae di quel mondo?
La mia famiglia è italiana da generazioni, nessun legame con l’est Europa. Eppure il mio rapporto con la cultura aschenazita è una sorta di affinità elettiva, nonché l’oggetto della mia tesi di laurea. Per diversi motivi, durante la mia crescita artistica, sono stata conquistata da quell’universo. Mi piacciono i suoi autori, l’idea del chassidismo, con la sua spiritualità altissima, che esprime un grande amore anche “fisico” per la vita. Il chassidismo ha coniugato spiritualità e sensualità… io cerco di fare qualcosa del genere, di andare nella stessa direzione.
Ma che ti avranno mai fatto, questi poveri sefarditi…
Tutt’altro! Il mondo sefardita è solo una mia conoscenza più recente, per molti anni in effetti non me ne sono occupata granché. Invece grazie al lavoro con il chitarrista Manuel Buda, grazie alla conoscenza di Davide Saponaro, musicista che ha fatto delle interessanti ricerche sulla musica degli ebrei del Mediterraneo e del nord Africa, e grazie anche a Judith Cohen, grande esperta, ricercatrice ed esecutrice di musica ladina, ho scoperto un universo fatto di calore, passionalità, ritmo, molto diverso da quello est europeo ma anch’esso estremamente affascinante.
Una contrapposizione che sembra vivere anche in Caffè Odessa, lo spettacolo che chiuderà il programma della Giornata europea della cultura ebraica a Milano, città capofila. Ce ne parli?
È vero, in Caffè Odessa c’è anche questo elemento, questo dualismo. Che, come il pubblico vedrà, si risolve sul finale… Lo spettacolo è principalmente uno spettacolo musicale, un excursus nella musica ebraica a tutto tondo, durante il quale tenteremo di rispondere alla domanda: cos’è la musica ebraica? Io e i miei due collaboratori e colleghi musicisti, Manuel Buda e Bruna Di Virgilio, ci siamo posti questo problema, al quale tentiamo di rispondere con dodici brani, dall’ebraico al ladino, dallo yiddish alla canzone americana. Negli Stati Uniti la componente ebraica nella musica è stata importantissima, anche per questa capacità di parlare della società, in qualche modo, con un occhio esterno, forse più sognante, desiderante. Con il paradosso, per esempio, che White Christmas, la più grande hit di Natale di tutti i tempi, è stata scritta da Irving Berlin, un ebreo. Per altro ho scoperto anche una versione di White Christmas in Yiddish, che prima o poi porteremo in scena…
Hai girato tanti festival e partecipato a più di una Giornata europea. Secondo te, che effetto hanno sul pubblico questo genere di iniziative?
Sono una grandissima sostenitrice della Giornata della cultura, perché mi ha dato l’opportunità di iniziare a lavorare sulla nostra identità ebraica. Non è una cosa così scontata: è importantissimo, per artisti e intellettuali ebrei giovani e meno giovani, avere un palcoscenico, un pubblico a cui rivolgersi. I festival hanno la funzione fondamentale di far incontrare artisti e pubblico, e anche gli artisti tra di loro, che non è cosa da poco.
Mi sono resa conto che in Italia c’è una forte richiesta di cultura ebraica. E non so se i festival da soli bastino per sconfiggere l’antisemitismo, ma il contatto emotivo con una cultura, attraverso il teatro, la musica, l’arte e altre esperienze emozionanti, possono aiutare. Gli antisemiti rimarranno tali, ma a quelli che non hanno un’opinione precisa, possiamo raccontare tutto il positivo che c’è nella cultura e nell’identità ebraica.
Progetti per il futuro?
Uno in particolare: creare uno spazio stabile di arte e cultura ebraica a Milano, con una sede fisica e una programmazione annuale, dove si faccia teatro e altro, che accolga creativi e intellettuali ebrei e non ebrei, in modo da dare progettualità e continuità a tutti noi che ci occupiamo di cultura ebraica professionalmente.
A Budapest c’è un teatro ebraico da dieci anni, si chiama Golem. Stiamo lavorando a una partnership con loro. Per replicare, con le dovute differenze, un modello funzionante. E per far sentire in modo più incisivo la nostra voce e le nostre proposte.
Marco Di Porto