I poster di Tartakover

“Lo Stato d’Israele sarà aperto per l’immigrazione ebraica e per la riunione degli esuli, incrementerà lo sviluppo del paese per il bene di tutti i suoi abitanti, sarà fondato sulla libertà, sulla giustizia e sulla pace come predetto dai profeti d’Israele, assicurerà completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso, garantirà libertà di religione, di coscienza, di lingua, di istruzione e di cultura, preserverà i luoghi santi di tutte le religioni e sarà fedele ai principi della Carta delle Nazioni Unite.”

[David Tartakover, poster per i 60 anni dello Stato d’Israele]

Il brano della dichiarazione d’indipendenza, aggiustato a riflettere la realtà con la cancellazione a pennarello delle promesse non mantenute, era apparso per la prima volta nel 1998, come copertina del libro Democrazia in Catene dell’ex ministra dell’Istruzione Shulamit Aloni. È solo una di forse duecento opere del grafico, esposte al Museo d’Arte di Tel Aviv. È giovedì sera e l’ingresso è gratuito. Il museo è gremito, ma la folla non si accalca nelle sale delle collezioni stabili, con i loro splendidi Chagall, Picasso, Van Gogh, né a vedere gli inquietanti video in Controluce di Maya Zack o le altre mostre temporanee. È deserta anche la torre di biciclette di Ai Weiwei, che potrebbe essere di interesse politico, vista la cancellazione della prevista esposizione di fotografie dell’artista dissidente cinese, che aveva sollevato un polverone pochi mesi fa. I visitatori si concentrano invece davanti ai lavori grafici di Tartakover e nello spazio all’ingresso, dove possono cimentarsi essi stessi nella realizzazione di poster, con materiali eterogenei lasciati a disposizione – e lo fanno, grandi e piccini.
Alcuni dei poster di Tartakover sono parte del nostro immaginario israeliano anche se ne ignoriamo l’autore: la scritta ‘shalom’ in nero su uno sfondo di cielo azzurro ed in basso nuvole bianche, con solo la lamed dorata a indicare, col suo valore numerico di trenta, che quello è il poster per il trentennale dello stato. Scelto ufficialmente anche dopo che all’autore era stato richiesto di aggiungere un elemento grafico che richiamasse Gerusalemme, e lui si era rifiutato. Oppure, del 2008, il volto di Gilad Shalit con sovraimpresse in bianco, quasi sbarre che lo tengono prigioniero, le lettere della domanda ‘Cosa ancora ci chiederai, o patria?’. L’occhio critico di Tartakover registra, fra grafica commerciale, arte e pura cronaca, realtà e contraddizioni d’Israele, con la sensibilità della generazione (Tartakover è del 1944) che ha creduto, ha combattuto – la guerra dei Sei Giorni, quella di Kippur – e si è progressivamente disillusa. “Per me umanesimo vuol dire essere anarchico, cosmopolita, ateo, combinare questi elementi”. Dal logo di Shalom Achshav / Peace Now, disegnato nel 1978, la sua produzione ha acquisito sempre di più il valore di protesta civile, di espressione iconografica di un’indignazione montante e senza sbocco. Come il poster che ritrae un bambino palestinese con un fucile a elastico, di legno grezzo, e sovraimpressa la dichiarazione ufficiale del portavoce dell’esercito alla morte di Ali Muhamad Juarwish, anni 6, nel Novembre 1997: “E’ triste quando muore un bambino, e costa difficoltà dirlo, ma è stato ucciso secondo le regole”.
Difficile anche dire quanti, fra i visitatori dell’esposizione, non siano privilegiati ashkenaziti tel avivini. ‘Smolanim’ cui le immagini di Tartakover parlano, ma non dicono nulla di nuovo, perché è tutto già condiviso. Però passando accanto ad un altro poster del 1978, che non contiene altro che una scritta in aggressivi caratteri neri: ‘Israele non è l’America’ sento leggere a mezza voce, ad un’amica, una signora dal forte accento russo. Israele non è l’America, ripete perplessa la signora russa. Forse, c’è speranza.

Alessandro Treves, neuroscienziato 

(21 agosto 2016)