Qui Mantova – Festivaletteratura
Cosa ci insegna il Talmud
“Il Talmud è come una siepe attorno alla Torah, che altrimenti brucerebbe tutto con la sua potenza” trovo scritto in un libro aperto a caso su uno dei tanti banchetti che affollano allegramente Mantova, in questi giorni di Festivaletteratura. Del concetto di Talmud come tramite umano fra le nostre vite quotidiane e la Torah hanno parlato venerdì nell’Aula Magna dell’Università di Mantova Giulio Busi, ebraista, e Stefano Levi Della Torre, scrittore e pittore. I due hanno compiuto, in poco meno di un’ora, un piccolo miracolo: spiegare alle più di duecento persone attente ed estremamente reattive che avevano davanti la complicata nozione di “Torah che è sulla bocca” (traduzione letterale e suggestiva, probabilmente opera di Baharier, poiché la ritrovo in tutti i suoi allievi, di Torah-she-beal-pe).
Il Talmud è il libro più perseguitato, confiscato e bruciato della Storia europea, ma anche il più ignorato, nell’unico modo in cui si può ignorare un libro: non leggendolo. Così esordisce Busi, sostenendo che la recente pubblicazione di Rosh Hashanà, il primo trattato tradotto in italiano, così come la lavorazione dei prossimi volumi diretta da Rav Riccardo Di Segni e presieduta da Clelia Piperno, è una sorta di riparazione, correzione di un torto subito negli ultimi 800 anni, da quando cioè, all’inizio del XIII secolo, copie del Talmud, manoscritte prima, a stampa poi, furono bruciate su quasi tutte le piazze d’Europa. Le denunce provenivano spesso da apostati, ebrei convertitisi al Cristianesimo che, desiderosi di acquisire meriti agli occhi dei nuovi correligionari, accusavano il Talmud di contenere blasfemie contro Gesù e Maria. Fu solo nel 1500 che Johannes Reuchlin, umanista e teologo tedesco, si espresse contro la pratica, sostenendo che bruciare un libro che non si è nemmeno in grado di leggere (o forse proprio per questa ragione) è atto barbarico. Qual è dunque la ragione per sospettare tanto di un libro senza però volere in alcun modo entrare in contatto con esso? Perché odiarlo “da lontano”? Il Talmud, a differenza della Bibbia, non è rivelato, ma discusso; questa la ragione principale per Busi, che elabora: i maestri del Talmud sono degli intellettuali, non dei profeti. Si interrogano, trovano riposte parziali, limitate, incomplete e alla fine lasciano aperte alcune domande. Il Talmud è un secondo tentativo di narrazione collettiva di un popolo, dopo la Bibbia, ma questa volta si tratta di una narrazione tutta umana, laica, finita. Ha fatto tanta paura al Cristianesimo perché è ciò che ha permesso al popolo ebraico di continuare a vivere nei secoli. Fallite le certezze, tramontata la possibilità di vivere sulla terra della Bibbia, resta il libro umano, non rivelato ma condiviso, dialogico e necessariamente collettivo. La Bibbia ha un unico Autore (almeno secondo la tradizione religiosa), il Talmud ne ha molti, per definizione.
Levi Della Torre incomincia il suo discorso proprio da qui: dalla distruzione del secondo Tempio e l’inizio del Giudaismo rabbinico. Il Talmud, dice, nasce da due catastrofi: la distruzione del Tempio ad opera dei romani nel 70 e la fallita rivolta di Bar Kokhbà nel 135. Dio si è occultato ed è quindi ora di ereditarlo, interpretandolo. Questa è l’elaborazione del lutto da cui nascerà il giudaismo rabbinico, cui si contrappone l’elaborazione da cui nascerà il cristianesimo: Dio non si è occultato, anzi, è così vicino che si è fatto uomo.
La Torah che è sulla bocca dovrebbe però restare tale ed è questa la ragione per cui il Talmud nasce in realtà da una trasgressione, ma si salva da essa con un espediente letterario, o forse due: riproducendo nella scrittura la forma dialogica e non sistematica dell’oralità e istituendo una regola ferrea: la citazione delle fonti, il riportare l’insegnamento sempre a nome di colui che lo ha fornito. Il Talmud nasce quindi come un atto di trasgressione e di resistenza: resistenza alla Diaspora e alla dispersione, trasgressione al divieto di fissare con inchiostro le conversazioni tra maestri e discepoli, obbligando quella massa plastica in permanente elaborazione (qui è il pittore a parlare) ad assumere una forma minacciosamente fissa. Ci si salva con il dialogo, con la narrazione collettiva e con la riproduzione scritta dell’insegnamento orale.
In ultima battuta Della Torre spiega il significato della pubblicazione del trattato Rosh Hashanà, che tratta del Capo d’anno: il tempo stabilito dall’essere umano è un intervento dell’uomo sulla natura, è un dialogo fra natura e cultura, poiché la nuova luna, per avere valore legale, deve essere testimoniata dall’umano (per di più collettivo, ossia almeno due persone). Contare il tempo è una delle prime attività con cui l’essere umano “domina” la natura, così come il Talmud è il primo e più importante intervento umano sulla Torah, che permette di applicarla, facendola propria, cioè umana.
Miriam Camerini
(11 settembre 2016)