…cinquecentenario
Recentemente avevo espresso il desiderio che questo cinquecentenario del Ghetto di Venezia finisse una buona volta. Mi ero anzi ripromesso io stesso di non scriverne più. Ma stamattina Anna ritorna a casa e mi dice che un’amica le ha chiesto come mai io sia così polemico nei confronti di questo anniversario (mi ha sentito alla TV, dal palco della RAI durante la Regata storica). Del resto, prosegue l’amica, gli ebrei avranno anche passato tempi grigi nel ghetto, ma poi ne sono usciti bene, e si sono comprati palazzi e case e terre. Insomma: nel ghetto hanno fatto i soldi. Anna spiega che forse si tratta di considerare le proporzioni, quanti siano stati i benestanti fortunati e quanti i miserabili sventurati che rimasero nel ghetto anche dopo l’apertura dei portoni. Ma si rende conto che è inutile obiettare, è inutile disquisire. Questa è l’idea che la gente si è fatta del ghetto. E pensare che l’amica è persona di solida cultura ampiamente universitaria. Ma perché sorprendersi? È l’idea che noi ora, in quest’anno di sventura culturale, stiamo riconfermando, con celebrazioni involontarie, con spettacolarismi, con mostre maldestre e sbilanciate, con convegni mal organizzati, con interviste televisive plurime piene di sorridente ottimismo nel presente e nel futuro. Il passato polveroso viene nascosto sotto il tappeto. Gli ebrei del ghetto sono i ricchi che ne uscirono nell’Ottocento e si comprarono i palazzi in città, i fortunati cui la Repubblica pagò i debiti contratti concedendo loro terre da bonifica, i banchieri, i finanzieri, gli armatori, le grandi famiglie, i grandi ‘notabili’, come li si chiamerebbe altrove. Su questi si concentra il focus ottuso e orgoglioso dei convegni. Del Ghetto, di quello vero, di quello che si è chiuso per trecento anni su tante migliaia di miserabili nessuno si occupa, nessuno si interessa. Troppo sudiciume, troppo olezzo. Insomma, per gli ebrei il Ghetto è stata una bella occasione: celebriamola. Inutile allora lamentarsi se gli altri non capiscono: la colpa non è del destinatario incapace di cogliere il messaggio, ma del mittente che lo invia errato. La responsabilità è di chi, con le sue prospettive sbilanciate, perpetua lo stereotipo dell’ebreo che l’antisemita, con giusta soddisfazione, porta a riprova dei suoi inossidabili pregiudizi.
Non so se si tratti di incapacità da parte di certi storici di vedere la storia nella sua obiettività o se non ci sia una deliberata volontà di trasmettere un messaggio ottimistico compiacente e mistificante, che non fa bene né a noi ebrei né alla verità storica. Chiediamoci perché.
Resta solo da sperare che a qualche malintenzionato non passi per la mente di protrarre le infauste celebrazioni del cinquecentenario oltre il 2016.
Dario Calimani, Università di Venezia
(13 settembre 2016)