Il servo e il padrone
Una giovane donna, dopo un iter giudiziario più che insoddisfacente, già ripetutamente fatta oggetto di derisione pubblica per un video che la raffigura nell’atto di un rapporto sessuale, si suicida. Una minorenne, in stato di impedimento poiché incosciente, viene filmata da alcune coetanee, sue “amiche”, nel mentre viene stuprata. Il filmato viene a sua volta pubblicato in rete, come una sorta di trofeo. Nell’uno e nell’altro caso il filo rosso che lega le diverse vicende è dato dal rapporto tra violenza sistematica, di matrice sessuale, e sua moltiplicazione incontrollata attraverso il web. Il tutto condito dallo sguardo al medesimo tempo compiaciuto e moralista (le due cose si tengono spesso insieme) di una miriade di anonimi osservatori. Demenza digitale? Sì, ma piuttosto diffusa, non circoscritta solo a qualche episodio. Poiché i due casi citanti in esordio sono solo la punta di un iceberg in tranquilla deriva. Evitando per parte nostra, sia ben chiaro, di dire che siamo al “declino della morale” (e magari dell’Occidente). Non si tratta, infatti, di registrare che le cose correnti siano necessariamente peggiori di quelle passate ma di capire come ciò che capita intorno a noi, e che a volte ci chiama direttamente in causa, sia il segno dei tempi che viviamo. Soprattutto, di comprendere sotto quale segno dei tempi stiamo concretamente vivendo. Mi sono ripetutamente incrociato con vicende assimilabili, partendo da lidi apparentemente molto distanti ma, in realtà, non troppo eccentrici, quando meno nelle dinamiche mentali sottese: iniziando dall’antisemitismo, passando per il negazionismo, transitando per il speech hate (dei veri banchi di prova di tante altre questioni), per poi arrivare ad una più generale riflessione sulla rancorosità, sul livore, sulla rabbia. Non si tratta certo di dire che fenomeni distinti si equivalgano, men che meno che siano omologhi. Ma sussiste tra di loro una cifra comune, nella diversità dei singoli “file”, ed è il generarsi di una sorta di comunità virtuale che condivide, almeno temporaneamente, un comune sentire basato sul disprezzo. Si tratta, nella nostra società, della forma con la quale si procede al linciaggio, non importa se di natura “solo” mediatica, poiché il fine ultimo è la distruzione dell’integrità di una o più persone, ridotte a fantocci contro i quali scagliare i propri strali. In tutto ciò si esprime sempre un rapporto asimmetrico di potere. Laddove la scadente dialettica tra esibizione di potenza attraverso il dileggio sistematico, reiterato poiché reso “virale”, e senso di impotenza diventa il nocciolo stesso del gusto della reiterazione della violenza, ovvero di ciò che chiamiamo convenzionalmente “male”. L’esibizione di potenza è quella di chi si impone sulla volontà altrui, per poi manifestare compiaciuto il risultato della sua prevaricazione, moltiplicando all’infinito le immagini dei suoi gesti, in ciò assecondato da un esercito di “guardoni”. Senza questi ultimi la violenza non solo non avrebbe la risonanza che conosce ma costituirebbe, in tutta probabilità, una tentazione di molto minore poiché appagherebbe molto meno. Il senso di desolata impotenza è quello di colui, uomo o donna che sia, che è invece ridotto a destinatario, e quindi vittima senza difesa, dell’altrui sopraffazione. Non si è vittime se, oltre al dolore subito e al male sofferto, non si accompagna il pudore introiettato, quasi che la disgrazia capitata sia da imputare ad una qualche mancanza propria e non alla tracotanza altrui. Durante una conversazione pubblica, presentando un libro, nei giorni scorsi, è capitato di dire e ascoltare che stiamo passando dalla società dei testimoni a quella degli spettatori. Questi ultimi non parlano la lingua della comprensione e della immedesimazione empatica, oltre alla ricostruzione e alla narrazione dell’esperienza dei fatti in quanto tale. Piuttosto, sono depositari di quella etica fallace che è il moralismo voyerista, prodotto dalla visione compiaciuta, a distanza di sicurezza, di eventi traumatici accaduti ad “altri”. Che per chi li subisce rappresentano un collassamento mentre per chi li “osserva” sono una specie di spettacolo sul quale discettare, in un esercizio di falsa coscienza. Il web spesso incentiva e moltiplica questo rapporto con le cose della vita, percepite come oggetti privi di spessore. Così come nel caso della storia, che su non pochi demenziali post dei social network spesso si riduce ad un gioco di mattoncini Lego, del tutto intercambiabili tra di loro, poiché filtri di giudizio, misure di grandezza, esperienze e competenze, concatenazioni ma anche la stessa circospezione come metodo, del pari alla ricerca dei riscontri e alla stessa sensibilità morale, saltano a favore di una valanga di parole messe in licenza. C’è allora un concetto cardine da considerare, quello di vulnerabilità. Che nelle vicende richiamate costituisce un punto fondamentale della natura umana e della sua dignità. Le fantasie perverse di dominio si fondano sempre sulla disintegrazione del perimetro di autodifesa dell’individuo. La via della sessualizzazione dei rapporti (che è cosa diversa da un rapporto sessuale, quand’anche esso sia filmato con il consenso di coloro che vi partecipano), e la sua esibizione incontrollata, in quanto espressione di prevaricazione, va in questo senso, avendo ad oggetto il totale assoggettamento del corpo altrui. Nei fatti come nelle parole, nei gesti come nelle rappresentazioni. Se l’erotismo è anche principio di vita qui, ciò che circola, è soltanto il suo fantasma deteriore, la sua pantomima devastante, la copertura con uno squallido involucro caricaturale della distruzione in atto di un essere umano. E del godimento che ciò ingenera in non pochi, carnefici ma anche spettatori. I secondi, a eventi compiuti, rivendicheranno la loro verginità, intesa come estraneità etica. Come non pensare al passato collettivo, alle logiche dei Lager (ma anche dei Gulag), insieme ai massacri esibiti sulle pubbliche piazze, con tanto di apparato fotografico? Oggi, per noi, la “piazza” è soprattutto quella virale della virtualità. Non è il caso di scomodare i grandi nomi del pensiero critico per cogliere la pericolosità di queste dinamiche. Non si tratta, infatti, di razionalizzare il tutto dentro “dispositivi” intellettuali onnicomprensivi che, spesso, valgono per se stessi e non per la collettività in quanto tale. Non traducendosi in agire politico, l’unico che possa ovviare alle derive di un certo comune sentire. Né di dire che la tecnica – in questo caso quella delle informazioni – sia di per sé “buona” o “cattiva” . Non è l’una o l’altra cosa, se considerata come strumento a sé, mentre l’uso che se ne fa costituisce il vero differenziale, creando o distruggendo il campo dell’etica senza il quale il civile convivere diventa uno sforzo impervio. Dobbiamo certamente capire, ma si tratta solo del primo passo. Poiché ci ritroviamo frequentemente a registrare la nostra di impotenza. Quanto volte è stato detto: “va bene, siamo d’accordo sull’analisi, ma adesso cosa si fa?”, senza che si riuscisse a dire alcunché al riguardo. Uno smacco, in tutta franchezza, che segna un altro aspetto dell’età che stiamo vivendo, contrassegnata dall’impedimento: cerchiamo di capire (almeno per chi tale sforzo lo intenda ancora fare) ma poi qualsiasi consapevolezza sembra infrangersi contro il muro dell’impossibilità di cambiare lo stato delle cose. Ci sentiamo soverchiati da qualcosa che ci sovrasta e che si impone su di noi anche in presenza della nostra più secca opposizione. La diffusione virale della diffamazione, dell’insulto, della denigrazione sono una buona metafora di questa condizione: comprendiamo quanto possano essere pericolosi ma, all’atto pratico, non riusciamo ad arginarne la moltiplicazione. Dopo di che, alle mille cose che si potrebbero ancora dire, va aggiunto che i processi sociali in corso non solo ci stanno facendo più deboli, e quindi vulnerabili, ma anche più “visibili”, osservabili sempre, comunque, a prescindere. Quindi, più ricattabili. Il confine tra pubblico e privato conosce non solo continue erosioni ma costanti trasformazioni, rischiando che il secondo si prosciughi a favore di una dimensione pubblica senza socialità, priva di reciprocità, assente di calore. La giurisprudenza, per parte sua, più volte richiamata come strumento di tutela e di protezione, nella migliore delle ipotesi deve esercitarsi in una defatigante rincorsa, avendo come esclusivo strumento di riparazione, quand’esso funziona, l’istanza risarcitoria. Non di meno, mi pare di comprendere, le stesse magistrature, in quanto ordine “autonomo e indipendente”, scontano farraginosità culturali e generazionali che peseranno sempre di più nei tempi a venire. La tentazione di proibire, peraltro, fotografa la classica situazione di chi cerca di svuotare l’oceano con il cucchiaino. Non si ferma il gusto del dileggio con la sola minaccia di una qualche punizione. Purtroppo. Poiché in esso si preserva e si rinnova un desiderio di potere, una foia di assoggettamento, un disegno di distruzione dell’integrità altrui che costituisce una tentazione troppo forte per chi ne viene infettato. La qual cosa, anche quando parliamo di cose di più stretta pertinenza, come l’antisemitismo, dovrebbe indurci a riflettere su quali siano le asimmetrie di potere che, attraverso il ricorso alla denigrazione, ristabiliscono di volta in volta il vassallaggio che sta alla base del legame tra “servo” e “padrone”.
Claudio Vercelli
(18 settembre 2016)