Quando il calcio racconta il riscatto di una città
Le vittorie dell’Hapoel rilanciano Beer Sheva

img-20160916-wa005Si sono trovati in una cinquantina in una traversa di via Torino per bere una birra insieme. Un sala di un pub nel centro di Milano affittata per l’occasione, per esorcizzare l’attesa. La sera infatti c’era l’Inter. Il loro Hapoel Beer Sheva, bistrattato e a lungo preso in giro in patria, lo scorso giovedì scendeva in campo in uno degli stadi più noti d’Italia, San Siro, per giocarsi l’Europa League. “Fino a due anni fa non ci avremmo creduto – racconta uno dei tifosi, accento misrachi (gli ebrei provenienti dai paesi arabi) e da poco uscito dalle file dei Golani, il reparto d’élite dell’esercito israeliano – Ora siamo qua. E sfidiamo l’Inter. Noi rappresentiamo la rivalsa delle periferie, il riscatto del Sud”. Cosa significa, lo spiega un altro ragazzo alla domanda sul come sia vivere a Beer Sheva, una città che in Israele molti descrivevano come un posto dove “vai, concludi i tuoi affari, e levi le tende il più velocemente possibile”. “Se vieni da fuori e guardi Beer Sheva pensi sia una città brutta. In realtà qui noi abbiamo tutto, siamo felici, se la conosci dall’interno non manca nulla, ci sono prospettive. – racconta – È cambiata negli ultimi anni così come è cambiata la nostra squadra. Siamo passati dall’essere l’anonima città del Sud, che invidia Tel Aviv a una realtà viva, che nel calcio riesce a stare davanti ai miliardari del Maccabi (Tel Aviv, la squadra israeliana più vincente del campionato israeliano)”.
Obiettivamente Beer Sheva rimane una città bruttina, seppur l’Hapoel ne abbia riscattato l’onore lo scorso anno, vincendo il campionato israeliano dopo 40 anni di digiuno. Ma nonostante l’estetica, gli studenti non fuggono più come in passato. Amitai, studente di scienze politiche, spiega che “un tempo nel weekend la città si svuotava. Tutti tornavano a casa. Ora molti rimangono e si passa insieme il tempo a Beer Sheva. Chi torna invece da mamma e papà, viene preso in giro e bollato come mammone”.
Ma Beer Sheva non è solo una città universitaria. E soprattutto un esempio della periferia di Israele, quella più emarginata e meno abbiente. Luogo di immigrazione russa e misrachi, realtà a lungo economicamente depressa, con una disoccupazione più alta rispetto al nord e strade e abitazioni a tratti fatiscenti; un luogo che faceva difficoltà ad attirare investimenti, incanalati verso quella Silicon Wady che gravita attorno a Tel Aviv e che costituisce il cuore pulsante della Startup nation. Ora (dagli anni duemila), come si diceva, il vento sembra essere cambiato, tanto che un anno fa il governo ha ideato un progetto volto a rendere la città un centro dell’high tech israeliano (l’idea è di portare circa 2500 lavoratori a lavorare nell’area, attraverso alcuni incentivi, tra cui sulla casa). Ma di nuovo a segnare la strada di questo cambiamento sembra essere stato la squadra dell’Hapoel Beer Sheva: l’arrivo nel 2007 di Alona Barkat – prima, e al momento unica, donna a guidare una squadra di calcio israeliana – ha segnato la storia della società, riportando l’entusiasmo tra i gamalim (i cammelli, come si sono autosoprannominati i tifosi del Beer sSheva) e gli investimenti sia in termini economici sia sociali. Nonostante gli errori iniziali, la Barkat ha portato l’Hapoel in alto, addirittura più in alto di tutti, risvegliando l’orgoglio dell’intera città: in 100mila hanno festeggiato quest’estate la vittoria del campionato. “Ora viaggiamo a testa alta, tutti – spiegava un altro tifoso mentre sorseggiava una birra davanti al Duomo di Milano – e anche stasera sarà così, con l’Inter”. Con un certo ironico scetticismo, il tifoso si era sentito rispondere che difficilmente sarebbero usciti da San Siro senza subire un largo passivo. E invece la partita è finita 2 a 0 per l’Hapoel. Un altro piccolo miracolo per una squadra e per una città per cui il riscatto continua.