Ritorno al radicalismo islamista

torino vercelliPrima che una nuova ondata di violenze in Europa, che auspichiamo non abbia a ripetersi ma che non è per nulla scontato che non trovi l’occasione per manifestarsi, possa di nuovo occupare la scena pubblica (tra ondate di sdegno alle quali si alterna la sostanziale indifferenza dei più, esauritosi il primo momento di identificazione emotiva), è buona cosa tornare a ragionare ancora una volta su cos’è il radicalismo islamista e a cosa corrispondono i processi di “radicalizzazione”, laddove individui in origine sostanzialmente estranei alla lotta armata e al terrorismo propendono e poi optano, dopo un breve periodo di indottrinamento, all’una e all’altro. Basti comunque ricordare che nel novero delle vittime, secondo le stime degli operatori e delle agenzie che monitorano l’islamismo radicale, più di nove decimi di esse (per l’esattezza il 97,2%) è di fede o comunque origine musulmana. Fatto che evidenzia come la prima posta in gioco, per quelle organizzazioni terroristiche, sia il controllo di “Dar-al-Islam”, letteralmente “la casa dell’Islam”, ovvero i territori a maggioranza o a pressoché esclusiva composizione islamica. Ciò nulla toglie alle eventuali mire che possono poi rivolgersi verso paesi e nazioni che ospitano comunità musulmane, essendo però queste ultime minoranza rispetto al resto della popolazione. La cosiddetta radicalizzazione jihadista autoctona, «homegrown jihadist
radicalization», è un fenomeno che molti paesi dell’Europa Centrale e del Nord conoscono già da una quindicina d’anni almeno, con il tornante degli attentati dell’11 settembre del 2001, e che si sta trasfondendo anche in Italia. Segnatamente, il differenziale tra il nostro Paese e quelli continentali è legato ai processi e ai flussi migratori, a loro volta derivanti, nel corso del tempo, dal retaggio dei trascorsi coloniali così come dai complessi processi demografici che connotano, nelle loro peculiarità, ogni nazione. Va rilevato, a tale riguardo, che a fianco dei network jihadisti istituiti da soggetti provenienti dall’estero anche in Italia, in questi ultimi anni, si sono affermati soggetti indipendenti (i cosiddetti «lone actor») così come piccoli nuclei di individui che si sono radicalizzati autonomamente, operando al di fuori del complesso milieu islamico ma caratterizzandosi per una forte presenza sul web. In ogni caso, si sta parlando di un fenomeno dalle dimensioni ancora ridotte rispetto ad altri paesi dell’Europa occidentale. Semmai, il vero angolo problematico è quello dell’ipoteca politica che un tale tipo di condotta, basata sull’auto-indottrinamento del “cani sciolti”, potrebbe istituire per il futuro. Il fenomeno dei «foreign fighters» si inquadra dentro tali coordinate. Alcuni dati numerici possono aiutare a comprenderne la natura, prima di passare ad un’analisi di contenuto. Ci sono forniti dal Soufan Group, con il suo report analitico dedicato ai «Foreign Fighters. An Updated Assessment of the Flow of Foreign Fighters into Syria and Iraq» (New York 2015). Nel conflitto civile e militare in corso nell’area siro-irachena i combattenti provenienti da paesi stranieri al 2014 risultavano essere approssimativamente dodicimila. L’anno successivo la presenza era pressoché raddoppiata, per più di una ottantina di nazioni d’origine. La distribuzione geografica dei paesi di provenienza non è ovviamente uniforme. Significativa, ad esempio, è la presenza di combattenti provenienti dalla Russia e dall’Asia centrale, due incubatori del radicalismo. Una suddivisione di massima indica cinquemila provenienti dall’Europa occidentale, quattromilasettecento dai paesi che sono parte dell’ex Unione Sovietica (di cui circa la metà dalla Russia), ottomila dal Maghreb (di cui ben seimila tunisini), altrettanti dal Medio Oriente (con duemila giordani e un numero similare per la Turchia), poco meno di un migliaio dai Balcani, altrettanti dal Sud-Est asiatico. Tunisini, sauditi e giordani continuano a costituire l’ossatura dei combattenti stranieri presenti nelle file di Daesh e Jabhat al-Nusra. Fin qui, si potrà obiettare, nulla di troppo inedito o di eccessivamente sorprendente. Il rimando al terrorismo, che in Europa ha storicamente lasciato una traccia pesante, soprattutto in Italia, Germania e Francia, parrebbe pressoché immediato. Qualcuno però, un po’ incautamente, potrebbe quasi pensare di avere a che fare con un film già visto. In realtà le cose non stanno in questi termini. Meglio, quindi, entrare nello specifico della questione, poiché lo scenario occupato dal radicalismo islamista e, in immediato riflesso, dalla radicalizzazione di alcuni segmenti non solo delle società musulmane ma anche a maggioranza non islamica, interviene in un contesto storico e ha una natura distinta dai terrorismi in età industriale. Se non altro perché il jihadismo è un complesso di elementi che si fortifica dei processi di erosione delle sovranità nazionali e delle trasformazione degli spazi indotti dalla globalizzazione. Ma avremo ancora modo di tornare su questo aspetto, più avanti. Alcune cose vanno invece chiarite a priori. Il primo punto è che si ha a che fare con un percorso di radicalizzazione ogniqualvolta all’unione tra azione violenta, lesiva della dignità e dell’esistenza altrui (ma in molti casi anche di quella propria, quando si muore uccidendo), si coniughi una ideologia totalizzante così come, nel medesimo tempo, il convincimento, per chi ne sposa la “causa”, che ricorrendo alla violenza si compia un atto non di sopraffazione bensì di giustizia riparativa. Il mondo va male, sembrano dire costoro, è per raddrizzarne il corso degli eventi bisogna intervenire usando la forza. A ciò ci si sente abilitati in nome di una sistema di valori inderogabile e non negoziabile. Qualcosa di totale. Per capire il radicalismo islamista bisogna intendere quale sia il suo fuoco, ovvero cosa accada nella testa di chi si consegna consensualmente ad esso. Un elemento che traspare da subito è il bisogno di affermare se stessi, investendo su di una “causa” totale, ossia in grado di costituire qualcosa che dà il senso di valorizzare, moralmente e civilmente, chi per essa intende sacrificarsi. Se nell’opinione di ognuno di noi queste condotte sono il segno di una depravazione ideologica ed etica, per chi le accetta il significato è esattamente opposto, completamento ribaltato: finalmente c’è una ragione, non tanto per vivere, ma per fare morire (ed eventualmente per immolarsi). Si tratta di un fenomeno diverso dalla criminalità poiché l’utile, in questo caso, non è il beneficio materiale (il bottino del ladrocinio) bensì il risarcimento simbolico (la convinzione che facendo del male a terzi si compia del bene nel nome di chi e per chi si afferma di agire). Anche per questa ragione i processi di radicalizzazione non sono riconducibili ad un approccio solo securitario: non si combattono esclusivamente con il pur necessario ricorso alla repressione giudiziaria e delle polizie, insieme all’azione preventiva dell’intelligence, rinviando semmai, ancora una volta, alle grandi questioni di fondo della coesione nelle nostre società così come della formazione delle identità individuali e collettive in età di grandi trasformazioni. Non a caso, quindi, l’idea di radicalizzazione presenta affinità con quella di terrorismo ma se ne differenzia per il fatto che si focalizza sugli attori, sulle loro motivazioni, sulla dimensione soggettiva delle loro azioni in rapporto con i tipi di organizzazioni che li inquadrano e li mettono in azione. Soprattutto, parlare di radicalizzazione, oggi, implica lo sforzo di fare chiarezza sul fenomeno del ritorno del religioso in forma tanto totalizzante quanto violenta, attraverso la morte sacralizzata (il “martirio”), senza che per ottenere ciò ci si affidi ad una dimensione puramente teologica, o comunque trascendentale, che ne priverebbe delle ricadute politiche altrimenti molto pronunciate. Nella radicalizzazione c’è scarsa religiosità mentre invece c’è un fortissimo senso della militanza e dell’appartenenza. La religione, usata e soprattutto abusata, è essenzialmente un collante ideologico, non la sostanza di cui è fatta l’azione. Gli elementi problematici sono quindi molteplici: l’inumanità conclamata, esibita e rivendicata, del jihadismo; la sua capacità di tradursi in effetto mediatico; il suo definirsi come il nuovo “nemico interno” alle società in cui opera; l’influenza di internet e del web nel reclutamento ma anche nella autoradicalizzazione, ossia nell’assunzione, per conto proprio, di posizioni sempre più oltranziste che si traducono, infine, in spirito di sopraffazione e in viatico per la futura distruzione di ciò che è ritenuto indegno di continuare ad esistere. Allo stato attuale dei fatti si ha sempre più frequentemente riscontri di radicalizzazione non per indottrinamento dall’alto verso il basso ma per autoformazione. Quanto meno, il primo passaggio tende a diventare questo. Si tratta di una differenza importante rispetto al passato anche recente. L’assimilazione dell’ideologia jihadista sembra spesso assumere percorsi autonomi. Oltre al rapporto con internet fondamentali sono le relazioni tra piccoli gruppi, dove il passaggio e la condivisione di simboli e significati facilmente assimilabili rinforza i legami. Così nel caso delle prigioni, oppure nelle relazioni con i propri pari, spesso in una condizione di rottura rispetto all’ambiente famigliare. Rimane tuttavia decisivo il fatto che per quanto la decisione di avviarsi sulla strada della radicalizzazione, così come gli effetti che da essa si producono, rimandi alla sfera autonoma dell’individuo, essa si rafforza e si conferma per il tramite dell’interazione con altri soggetti omologhi. Permane poi il reclutamento tradizionale, quello esercitato da un agente (individuale o collettivo) incaricato di inserirsi nei gruppi strutturati di musulmani, cercando quindi di indirizzarne prima la discussione poi i suoi esiti, per successivamente selezionare i potenziali candidati alla milizia attiva. Ma non è più la via esclusiva, come avveniva antecedentemente alla riconfigurazione verificatasi in questi ultimi anni. Il reclutatore, da questo punto di vista, raccoglie i frutti dell’autonomo percorso di radicalizzazione, indirizzando verso mete, organizzazioni e obiettivi specifici quello che già di per sé costituisce un terreno fertile di contrapposizione. La forza del reclutamento sta per l’appunto nell’offrire uno sbocco operativo ad un “sentire” alla ricerca di riconoscimento e legittimazione, l’una e l’altra non più garantitagli dal semplice fatto di richiamarsi, su un piano strettamente comunicativo o simbolico, ad un’appartenenza antagonista. Ma si avrà modo di tornare su questi – ed altri – passaggi.

Claudio Vercelli

(15 maggio 2016)