Verso Rosh Hashanah – Il suono dello Shofar
Uno degli aspetti paradossali dello Shofar, il corno di montone che si suona durante Rosh Hashanah, sta nel fatto che nel capitolo della Torah relativo alla festività noi troviamo soltanto la prescrizione del suono, ma non le istruzioni su come lo Shofar vada suonato. Per conoscere queste regole, i Maestri del Talmud si devono appellare ad altre parti della Torah: e tutto questo non serve ad altro che a sottolineare come l’eco dello Shofar si propaghi nella vita ebraica ben oltre l’angusto limite di due giorni di festa e a spronarci nella ricerca di sempre nuovi significati di un precetto tanto caro al popolo d’Israel. Nel trattato Rosh HaShanah del Talmud le regole relative al suono dello Shofar si deducono dal capitolo della Torah che tratta del Giubileo. In epoche trascorse, allorché tutte le tribù d’Israel abitavano la Terra dei Padri, ogni cinquant’anni ricorreva un’annata speciale, segnata dalla liberazione di tutti gli schiavi e dal ritorno delle terre ai loro primitivi proprietari. L’inizio dell’anno del Giubileo era annunciato, il Giorno di Kippur, dal suono dello Shofar: la Torah prescrive che in quell’occasione si dovesse emettere un suono lungo (Teki’ah), seguito da una serie di suoni brevi e rotti (Shevarim o Teru’ah) e poi da un ultimo suono lungo (Teki’ah). Il suono dello Shofar del Giubileo annuncia la liberazione: cosi, anche il suono di Rosh haShanah di ogni anno simboleggia una liberazione, la liberazione dal giogo delle trasgressioni e dell’istinto del male. Ma vi e un’altra tradizione che noi troviamo nel Sifre, un’antichissima raccolta di Midrashim halakhici sul libro dei Numeri. In esso Moshé riceve da D. il comandamento di farsi delle trombe d’argento con le quali avrebbe guidato Israel nel deserto. Se si fosse trattato di radunare il popolo, avrebbe dovuto suonare la Teki’ah; qualora invece avesse voluto dare ordine di partenza, avrebbe suonato la Teru’ah. Ciò perché il suono disteso è naturalmente adatto a situazioni statiche, mentre per situazioni a carattere dinamico assai meglio si addice il suono spezzato. A Rosh Hashanah la sequela dei suoni è Teki’ah – (Shevarim) Teru’ah – Teki’ah. In un processo di Teshuvah collettiva, in cui una Comunità decide di riappropriarsi della Torah e dei suoi valori, come accade dovunque nei Giorni Penitenziali, la prima cosa da fare è radunare il popolo: non solo in senso fisico, ma anche in senso ideale, sincerarsi cioè che la Comunità sia unita. Senza tale unità non c’è via al progresso. Ma l’unità da sola non basta: ancorché valore positivo, esso è tuttavia di sua natura statico, contemplativo. L’unità di partenza deve essere al servizio di una Comunità dinamica. E il dinamismo spesso si raggiunge solo attraverso lievi rotture di quell’unita di fondo: per carità, nulla di sistematico, ma semmai di metodico e di transeunte. Senza persone che all’interno del gruppo prendano l’iniziativa di muoversi, di creare qualcosa di nuovo, di rompere con la routine, anche a costo di sacrificare per qualche tempo persino il proprio rapporto con il resto della Comunità, ben difficilmente questa potrà progredire. A questo stadio corrisponde il suono centrale dello Shofar, la Teru’ah, suono rotto per definizione. Simboleggia la “crisi di crescenza” della Comunità. L’obbiettivo da raggiungere dev’essere nuovamente l’unità. Non il ritrovamento dell’unita passata, naturalmente, ma il raggiungimento di una nuova unità, fondata sulla sintesi fra la tesi, costituita dalla vecchia compagine (la prima Teki’ah) e l’antitesi, rappresentata dalla crescita nel frattempo intervenuta (la Teru’ah): cosi nasce l’ultima Teki’ah che conclude felicemente ciascun gruppo di suoni, in tempo perché se ne ricominci un altro. Ma non è ancora tutto qui. Perché la crescita è problematica: il suono che ha fatto maggiormente discutere i Chakhamim è proprio la Teru’ah. L’emissione rotta da essa rappresentata corrisponde al lamento prima di affrontare l’incognita della novità (Shevarim, letteralmente “rottura”) o al singhiozzo strepitante di chi piange la routine perduta, la Teru’ah propriamente detta? I Maestri su questo punto non prendono una decisione: le “proteste” devono rimanere entrambe, e cosi noi manteniamo, variamente alternati, tanto il suono di Shevarim che la Teru’ah. Ma la crescita è necessaria. “Il S. sale nella Teru’ah”, afferma l’autore dei Salmi (47,6). Solo attraverso la Teru’ah, sia pure con le piccole lacerazioni che può comportare, si compie la salita. Ma perché questa possa agevolmente avvenire, è giocoforza distinguere fra la Teki’ah che la precede e quella che la segue, giacché vi è una fondamentale differenza fra le due. La seconda Teki’ah, leggi “unita della Comunità”, è compito del suo leader: sta a lui ricrearla dopo aver innovato. Ma la prima Teki’ah, a mio avviso, è responsabilità della Comunità stessa. E’ l’unità che il gruppo deve mettere a disposizione del leader perché questi possa svolgere al meglio il suo lavoro. Il leader non ha alcun obbligo di crearsi da solo tale presupposto, mentre ha il diritto, comune a chiunque lavori, di vedere un prodotto della sua attività: è perciò compito della Comunità far trovare alle sue guide l’unità di fondo necessaria, in ultima analisi, al progresso della Comunità stessa. Chi suona lo Shofar sa bene quanto la prima Teki’ah sia la più difficile da imboccare, ancor più della successiva Teru’ah! “Quando radunerete la Comunità, suonerete la Teki’ah e non la Teru’ah”: se saprete davvero essere uniti, piantati nel suolo come pioli di una tenda (teku’im), osserva R. Moshe Eliakim di Koznitz, nessun ostacolo e nessuna difficoltà avrà più alcun potere su di voi e avrete soltanto occasioni di festa e di letizia: “e nei vostri giorni di gioia e di festa e nei capi-mese suonerete la teki’ah con le vostre trombe…”. Le-shanah Tovah Tikkatevu ve-techatemu.
Alberto Moshe Somekh, rabbino
Pagine Ebraiche, settembre 2012