Ticketless – Traduzioni
Il tema delle traduzioni, cui è dedicato il convegno presso il Centro bibliografico di questi giorni, a prima vista appartiene ad una judaica minore, ma non è così. Se, come scriveva Anatole France, non esiste lettura più rasserenante di un catalogo editoriale, si può fare un esperimento, che è non solo rasserenante, ma anche istruttivo. Proviamo a sfogliare le traduzioni dall’ebraico comprese nella prestigiosa collana della “Cultura dell’Anima” (editore Carabba) coordinata da Prezzolini e Papini. S’inizia con Il libro di Job, versione di David Castelli (1916), si procede con il Sefer Jetzirah (versione di Savino Savini,1919) per concludersi nel 1931 con le Pagine di morale ebraica coordinate da Yoseph Colombo. Il cammino è in discesa, sia detto senza offesa per Colombo e Savini. Sia per dottrina che per qualità Castelli è imbattibile, ma la discesa è indizio di un declino e fa problema.
La politica delle traduzioni perde mordente nel XX secolo, non già – come si suole ripetere -, perché l’ebraico è ignorato dagli stessi ebrei, ma anche perché gli ebrei che comunque continueranno a tradurre la lingua dei padri non terranno più in considerazione il confronto-sfida con la letteratura italiana. La traduzione è un atto di amore e per amare bisogna essere in due. Il traduttore valorizza l’originale conscio di affidarlo a un contesto che ha la sua nobiltà (una tradizione, una metrica, delle genealogie). Era stato il sogno di una generazione “informare gl’Italiani di una letteratura rabbinica, poco nota o punto, e mostrare come, non ostante la sua gran disformità dalle letterature classiche e dalle viventi, abbia pure i suoi pregi” (Salvatore De Benedetti). Il confronto con la poesia italiana era arduo, ma valeva la pena accettare la sfida. Per dimostrare di saper tradurre bisogna amare l’ebraico e l’italiano in misura eguale; era ed è indispensabile fare uso di una lingua letteraria “alto”, apprezzabile dagli italianisti di palato fino che ieri come oggi non mancavano e non mancano. Doti che non difettarono ai traduttori dell’Ottocento, ma dopo? Il passaggio ad una fase diversa si misura dalla crisi delle traduzioni- numerica e qualitativa-, dalla messa in discussione della stessa categoria di “traduzione”. Ciò determinerà il tramonto di chi desiderava “misurarsi alla pari” con i curatori delle opere di Dante, di Petrarca, di Boccaccio, di Machiavelli, di Ariosto, di Tasso, di Leopardi, di Manzoni: una mancanza di rispetto che ai primi traduttori ottocenteschi sarebbe sembrata oltraggiosa. Nel primo Novecento quella eredità di affetti viene guardata con sospetto, pericolosa fonte di assimilazione. All’alba del Duemila la domanda rimane invariata. La mediazione delle culture continua ad essere, ieri come oggi, un segno di avanzamento della civiltà: sbaglia chi pensa che sia trascurabile questione, superata dai tempi.
Alberto Cavaglion
(28 settembre 2016)