Un mestiere in ombra

loewenthalTutto comincia con una vecchia storia. Una storia all’alba di quella che chiamiamo storia. C’era infatti un tempo, remoto e irraggiungibile, in cui tutta l’umanità parlava una sola lingua. Così la Genesi biblica raffigura quel giovane mondo appena popolato e certo ancora assai immaturo. In quel mondo tutte le voci si rispondevano a vicenda con le medesime sillabe, tutti si capivano alla perfezione: allora era molto, forse troppo comodo, comunicare: la gente si capiva, quasi si leggeva nel pensiero. E fors’anche per questo, spinta dall’illusione di avere la terra in pugno attraverso un linguaggio universale, l’umanità divenne superba. Al punto da pensare di giungere fino a toccare il cielo: no, non con un dito bensì con un’imprudente torre.
Babele è una parola che nella lingua della Bibbia, cioè l’ebraico, evoca subito l’idea di una confusione inenarrabile. La torre ne è il simbolo, l’immagine eloquente: l’umanità che precipita vergognosamente, vinta dalla propria ambizione di arrivare in alto, dall’illusione di poter conquistare il mondo con la velleità della parola. Le macerie della torre di Babele seppelliscono quell’umanità troppo sicura di sé e seppelliscono anche – soprattutto – l’idea di un mondo perfettamente comprensibile. Infrangono inoltre anche quella realtà che, per chi fa il mestiere di traduttore ha più fattezze di incubo che di sogno: la realtà di un mondo che parla una lingua sola. Da allora, da quei remoti primordi, infatti non è mai più stato così. Anzi, le lingue si sono moltiplicate – sono nate, hanno generato altre lingue, sono morte. È una storia viva, quella della parola.
Ma certamente, ogni confronto con la lingua parte da quel momento cruciale del passato – un mito, sì, e non un’evidenza storica, ma non per questo meno importante nella nostra identità – in cui la lingua primigenia e unica si infrange, insieme alla torre di Babele. Si infrange per poi subito rifrangersi, cioè riflettersi, in un pluralismo linguistico straordinario. In fondo, con il crollo della torre di Babele e la condanna, per l’uomo, a vivere in uno stato di “confusione” lessicale, è come se fossimo tutti chiamati, da allora in poi, a esercitare il primo mestiere assegnato ad Adamo. Quello di dare i giusti nomi alle cose. Quest’ordine, infatti, Dio impartisce al primo uomo, all’inizio della Genesi: chiama gli animali, le piante e le cose con il loro giusto nome. In altre parole: sappi che il linguaggio è un tuo privilegio, un dono che ricevi e del quale devi farti ligio custode.
In fondo, da Adamo agli eschimesi che hanno più di trenta nomi diversi per indicare la neve, il passo non è poi così lungo. Ogni lingua ha una sua dignità particolare, un suo modo di guardare al mondo e raccontarlo attraverso le proprie parole. Per questo il pluralismo degli idiomi, il fatto cioè che al mondo se ne parlino e scrivano tanti, tantissimi, un’infinità, in fondo non è una maledizione. Anzi, il contrario. La torre di Babele ha fatto bene all’uomo. E i tentativi, anche recenti, di stabilire una lingua “comune”, “franca” di comunicazione fra popoli, etnie e continenti diversi, sono tutto sommato falliti. D’accordo, l’inglese è ormai uno strumento necessario. Ma non ha azzerato, e non dovrà farlo in futuro, la ricchezza delle altre lingue. Voltandoci indietro, infatti, vediamo come gli esperimenti di controllo della comunicazione attraverso la lingua siano tutto sommato falliti: primo fra tutti, il destino marginale subito dall’esperanto, moderna lingua internazionale estinta – se non in cerchie ristrette di amatori – prima ancora di diffondersi.
Così, in fondo, ha sempre fatto l’ebraico, lingua atavica e arcaica, più vecchia persino della torre di Babele. E tuttavia lingua capace in modo prodigioso di innestarsi nelle altre che sono venute dopo e creare degli ibridi sempre nuovi, al passo con i tempi ma soprattutto con le vicissitudini della storia e i luoghi dove la Diaspora ha condotto gli ebrei – e l’ebraico: yiddish, ladino, giudeo piemontese… Per sua natura, poi, l’ebraico ha un rapporto di “confidenza” intrinseca con la novità: tutto si forma e scompone a partire dalle radici trilittere e la rispettiva area semantica, attraverso prefissi, suffissi, vocalizzazione. È facile, in ebraico, creare un neologismo – intendo un neologismo immediatamente comprensibile. Basta svolgere in un modo nuovo una radice esistente. Così da rekhev, carro, una certa forma di femminile, rakhevet è perfetta per indicare il “treno”.
C’è qualcosa che mi lascia sempre a bocca aperta, metaforicamente e non, quando traduco un testo dall’ebraico. Che sia di un autore classico o postmoderno, che sia un midrash medioevale o una fiaba più giovane di qualche secolo. È la capacità unica di questa lingua di abitare il tempo e raccontarlo. Non c’è testo ebraico per quanto breve e asciutto che non contenga richiami ad altri tempi, che non abbia dentro di sé echi di testi scritti tanto tempo prima. Questo come si sa fa sì che se si mette un bambino israeliano di scuola elementare di fronte a una pagina della Bibbia, se la caverà molto meglio di un liceale italiano alle prese con la Divina Commedia. Questa continuità dell’ebraico e la sua capacità di accumulare accezioni diverse e svariati riferimenti dentro il lessico e la costruzione della frase sono prerogative che rendono la traduzione un percorso sempre un po’ vertiginoso: traduci Amos Oz e ti trovi davanti un’eco inconfondibile del Cantico dei Cantici. Svolgi la stenografia di un brano del Talmud e dopo averla dipanata non ti sembra poi così diversa da una pagina di giornale…
Questo scambio proficuo, capace di tramutare la maledizione della torre di Babele – la confusione – in una benedizione – la complessità, il pluralismo, può avvenire soltanto a una condizione. Una condizione piccola ma necessaria, proprio come l’aria (possibilmente sana) per respirare. La condizione è che si stabilisca un ponte, per comunicare e trasmettere. Per permettere alle lingue diverse di comunicare fra loro, scambiarsi impressioni e storia. Questa condizione è il traduttore. L’interprete: il tramite, umano, fra una lingua e l’altra. La discreta staffetta che sia disposta e capace di “trasmettere” parole e immagini, idee e sogni da una lingua all’altra.
E’ un mestiere, quello del traduttore, spesso sottovalutato. Quando non guardato con una certa diffidenza. Di solito evoca ricordi di scuola poco allegri, non di rado inquietanti: la versione, al liceo, è sempre uno spettro un poco minaccioso. Il suo terreno è per lo più quello delle cosidette “lingue morte”, il greco e il latino della classicità. Se non che, con questo triste participio passato, tutto assume un colore grigio, sbiadito, persino scostante. Anche se a ben guardare il latino e il greco, tramiti della classicità, sono tutt’altro che “morti”: la cultura che esprimono è (o meglio dovrebbe…) il fondamento del nostro modo di pensare e di agire.
Perché anche la traduzione, nel suo piccolo, è un mestiere tutt’altro che morto. Anzi. È più vivo che mai in questo presente sempre più multietnico, dove c’è sempre più bisogno di ponti, di strumenti di comunicazione capaci di varcare confini, accorciare le distanze. Anche per questo, è un mestiere bellissimo: perché se ne sente tutta l’urgenza, in questa modernità cui s’affacciano civiltà diverse, colori diversi, lingue diverse. Sempre più. È insomma un mestiere attuale più che mai, malgrado l’affermazione dell’inglese come lingua internazionale, strumento di comunicazione quasi per antonomasia. Questa invadenza dell’inglese non potrà mai ridurre a zero il pluralismo delle lingue. Tutt’al più, l’inglese diventerà una “seconda lingua” comune. Ma mai la prima, quella con cui si disegna il mondo, si esprime se stessi. Per questo ci sarà sempre bisogno dei traduttori: di queste figure seminascoste nell’ombra della pagina, o della parola detta, capaci di trasportare la realtà da una lingua all’altra.
Il silenzio è necessario, infatti, per far comunicare due lingue attraverso la traduzione. In gergo di lavoro si chiamano lingua di partenza e di arrivo. La prima è quella in cui il libro è stato scritto, in cui l’autore si è espresso. La seconda è di solito la lingua madre di chi fa questo mestiere. La sfida non è da poco, peraltro: tradurre un libro significa in fondo riscriverlo come l’autore l’avrebbe scritto, se avesse usato la lingua di destinazione cui si conducono le sue parole, invece della sua. Questo obiettivo è in fondo un miraggio. Un po’ perché la traduzione perfetta non esiste, e di ogni pagina sono possibili infinite traduzioni diverse. Non esiste una sola parola, un solo segno di interpunzione, che sia suscettibile di un’unica, categorica traduzione. E poi, ogni lingua non è soltanto una montagna di parole: è anche, e soprattutto, un sistema di pensiero, un modo di guardare al mondo, una (a volte millenaria) esperienza storica; un autore, scrivendo, usa tutto questo e molto altro, e non soltanto un sistema grammaticale e un lessico. Pertanto, provare a immaginare come avrebbe scritto se la sua lingua madre fosse stata un’altra (e nel caso specifico quella a cui lo sta destinando l’opera del traduttore) è un’operazione velleitaria. Probabilmente l’autore in questione avrebbe scritto un libro diverso, se fosse nato in una lingua madre diversa. Magari non avrebbe neppure mai scritto, sarebbe diventato un idraulico, un capitano d’industria, un musicista, invece di uno scrittore…

Elena Loewenthal

(29 settembre 2016)