Arnaldo Momigliano, le sue pagine
Pagine Ebraiche è il titolo dato da Silvia Berti alla raccolta che mise insieme di scritti di argomento ebraico del grande storico ebreo piemontese Arnaldo Momigliano, edita da Einaudi nel 1987. È da poco uscita la seconda edizione del volume, a cura delle Edizioni di Storia e Letteratura, nella quale si trova anche un contenuto inedito, un colloquio tra la curatrice e Momigliano, in cui lo storico parla di se stesso, dei suoi studi, della sua formazione e della sua rivoluzionaria concezione della storiografia.
L’opera, molto attesa, cui il numero di ottobre del giornale dell’ebraismo italiano dedica quattro pagine di approfondimento, sarà presentata domani alle 21 al Circolo dei Lettori di Torino nel corso di un evento promosso in collaborazione con la locale Comunità ebraica. Insieme alla curatrice, moderati dal presidente della Comunità ebraica Dario Disegni, interverranno lo storico Alberto Cavaglion e il presidente della Giulio Einaudi Editore Walter Barberis.
ARNALDO MOMIGLIANO, LE SUE PAGINE
“Dice una famosa massima di Rabbi Gamaliele: ‘Fatti un maestro’. Ai lettori, che conserveranno a lungo la luce consapevole di queste pagine, vorrei suggerire il nome di Arnaldo Momigliano”. È questo l’auspicio rivolto da Silvia Berti, docente di Storia moderna all’Università di Roma La Sapienza, alla fine della sua introduzione a Pagine Ebraiche, la raccolta di scritti di argomento ebraico del grande storico piemontese Arnaldo Momigliano, da lei curata e da cui questo giornale prende il nome, da poco ripubblicata nelle Edizioni di storia e letteratura. Lei, che dice di sé di sentirsi “più allieva che insegnante, con un’ossessione di conoscenza”, quel maestro in Momigliano lo ha trovato. “Aveva una straordinaria generosità verso i giovani – lo ricorda – poteva essere durissimo con i colleghi ma in grado di non far mai sentire il suo giovane interlocutore in disparità, anche quando essa era evidente”. Lo ha conosciuto quand’era ormai nell’autunno della sua vita, complice un consiglio del suo maestro di studi settecenteschi, Franco Venturi, il quale molti anni prima, a conforto dei suoi rovelli storiografici, le aveva detto: “Certo di tutto questo prima o poi lei dovrà parlare con Momigliano”. Così, in una giornata di vacanza spoletina, Silvia Berti contattò il grande antichista per un caffè, un caffè che si trasformò in sette ore di appassionante discussione. Con Momigliano si sviluppò poi un rapporto che a poco a poco diventò anche di amicizia, un rapporto misto di rispetto e affetto reciproci che traspare vivido nel colloquio inedito che correda questa nuova edizione dell’opera, una conversazione fra i due sui temi che stavano molto a cuore a Momigliano, dalla sua formazione in famiglia alla sua visione della storia e della storiografia. “Avevo realizzato l’intervista per poter dare alcune informazioni biografiche nella prima edizione del 1987, per la quale aveva voluto che scrivessi l’introduzione, ma preferì non che non fosse pubblicata e allora non lo feci”, spiega Berti. “L’anno scorso ho ritrovato il dattiloscritto della registrazione, come si faceva all’epoca, e l’ho riletto con occhi diversi”, aggiunge; da qui la decisione di portarlo alla luce.
Quando all’epoca Silvia Berti espose a Momigliano la sua idea delle Pagine Ebraiche, la sua risposta fu: “Tu non sai quanti guai ti potrà causare questo libro”. Ciononostante, lei lo fece lo stesso, una decisione che spiega così: “Seguendo il mio profondo interesse e amore per la cultura ebraica, mi persuasi di aver individuato nei suoi scritti di argomento ebraico la chiave di comprensione ultima del suo lavoro di storico”. E se come tutti Berti vedeva in Momigliano uno dei maggiori storici del Novecento, che seppe delineare con tanta chiarezza la complessità del mondo antico e i rapporti tra le sue numerose e diverse culture, trovò però con lui un’ulteriore e profonda connessione, quella con la prospettiva ebraica con cui egli guardava costantemente alla storia, fino ad allora così negletta. La sua meditazione sulla storia e sulla cultura ebraica è secondo lei un tema fondamentale, “tanto importante da rappresentare forse il filo di una ipotetica autobiografia intellettuale”, rimasto tuttavia in parte trascurato. “Né questo potrà stupire – aggiunge – se si tiene conto della scarsa sensibilità degli intellettuali italiani verso il mondo ebraico. Non che i suoi studi di argomento giudaico non siano largamente noti – precisa – essi sono però in genere considerati come uno dei suoi molteplici oggetti di interesse”.
Ma di autobiografico in Pagine Ebraiche c’è qualcosa di più, poiché la raccolta contiene l’unico scritto del genere dello storico, il quale accettò di scrivere una prefazione. “Si tratta dell’unico testo autobiografico mai scritto da Momigliano, e sarebbe potuto andare perso, dimenticato – le parole di Berti – e per questo ho tenuto particolarmente a che il libro fosse ripubblicato”. In poche righe Momigliano trasporta il lettore nel mondo intimo degli affetti dell’infanzia, dominato da due figure carismatiche che ne curarono la formazione. Uno, Amadio Momigliano, che fu come un nonno ma per la verità era fratello di suo nonno, visse in casa con lui fornendogli una prima istruzione direttamente tra le mura domestiche decisiva per il suo futuro. Talmudista e cabbalista, Amadio lesse a un giovanissimo Arnaldo lo Zohar, redasse per lui una grammatica di ebraico, gli trascrisse il commento di Rashi e gli fece imparare a memoria i Proverbi di Salomone e i Pirke Avot. E poi c’era il cugino Felice Momigliano, socialista, studioso di Mazzini, di Renan e del profetismo, tendente a una sorta di modernismo ebraico unito a una forte coscienza nazionale, che lesse e commentò Spinoza a un Arnaldo ancora dodicenne.
Nonostante queste due visioni così antitetiche, osserva però Berti a colloquio con il giornale dell’ebraismo italiano, “Momigliano riuscì in maniera incredibile a non farsi paralizzare da questo antagonismo e seppe trovare una sua strada per trovare una sintesi. E, naturalmente, lo ha fatto da storico”. È nell’esito di questa dialettica che Berti identifica infatti l’origine della rivoluzione storiografica del maestro, e cioè l’idea che “l’essenza dell’ebraismo è la storia stessa degli ebrei. Questo è uno dei suoi contributi più grandi – le sue parole – poiché seppe vedere non solo che gli ebrei rimasero tali in virtù della loro resistenza all’assimilazione ma anche quanto essi fossero debitori ai romani, ai greci, ai persiani e alle tante altre civiltà che incontrarono in un rapporto, spesso, di reciproco nutrimento”. Una lettura della storia del tutto contraria a quella che guarda al giudaismo con un occhio completamente interno. E così, nella sottile riflessione di Momigliano sull’ebraismo “sempre esegetica e mai dichiarativa, che suscita costantemente problemi piuttosto che offrire soluzioni – scrive Berti nell’introduzione al volume – l’esperienza etica del giudaismo, ricevuta in dono per nascita ed educazione, divenne ben presto per Momigliano dovere consapevole e amato, fierezza di appartenere a una grande tradizione intellettuale, fonte feconda di domande sul passato, fino a costituire, forse, l’ispirazione più autentica del suo operare”.
“Quale sia stato e quale sia il posto del giudaismo nel mondo antico e in quello moderno, e quale il rapporto tra religiosità e storia; infine, che cosa abbia rappresentato per gli ebrei, nell’Otto e Novecento, scrivere di sé in termini storici”, sono dunque le domande che Silvia Berti vede emergere di continuo nelle opere di Momigliano. Egli fu in pratica uno dei primi a dire che l’ebraismo è fatto anche dalla storia degli ebrei, che dunque andava a trovarsi sullo stesso piano con la storia di tutte le altre nazioni con cui gli ebrei convissero. A partire dall’ellenismo, da lui individuato come momento di svolta, come evidenzia anche a colloquio con Berti: “A casa mia erano cose persino ovvie che il momento decisivo era questo, la formazione del cristianesimo, il contatto della cultura greca con la cultura ebraica. Fa un po’ ridere, ma letteralmente queste erano cose che sapevo prima dell’età di dieci anni”.
Si tratta secondo la curatrice di una “professione di fede nel metodo storico”, definita nella sua introduzione al colloquio inedito come “evidentemente espressione di un atteggiamento consapevolmente secolare. Un atteggiamento che – prosegue – negando legittimità alla tesi del carattere astorico del giudaismo, escludeva allo stesso tempo, necessariamente, anche una lettura tutta interna della storia ebraica. Momigliano, infatti, che pure sapeva, come pochi, quanto lo studio della Torah e delle sue interpretazioni fosse stato un elemento strutturante dell’identità ebraica attraverso i secoli, sapeva altrettanto bene che la perdurante vitalità del contributo degli ebrei alla storia della civiltà era in egual misura dovuta alla loro capacità di assorbire valori e insegnamenti da altre culture”.
“Il pensiero storico che guarda seriamente a queste cose – dice in conclusione Momigliano a colloquio con Berti – è una forma di vita religiosa”. Per la sua interlocutrice si tratta di una “risposta commovente, e che in un certo senso fondeva sia l’insegnamento di Felice che quello di Amadio”. E del resto, per spiegarla al meglio usa le parole del maestro: “gli ebrei sono l’unico popolo dell’antichità in cui la riflessione sul proprio destino storico è stata al centro della vita spirituale, coincidendo con la religione”.
Francesca Matalon twitter @fmatalonmoked
SULLE TRACCE DI SPINOZA
Come per Arnaldo Momigliano, che leggeva le sue opere alla tenera età di dodici anni, l’incontro con Baruch Spinoza fu fondamentale per il futuro della sua opera di storico, anche nel caso di Silvia Berti il filosofo ebreo olandese e l’ondata di riflessioni da lui scatenata hanno segnato una svolta nei suoi studi e sugli studi sullo spinozismo in generale. Guidata da quello che lei chiama “un filo cabalistico”, inseguendo per le biblioteche del mondo testi eterodossi e clandestini, è stata proprio Berti a trovare la versione originale del testo del Trattato dei tre impostori, meno conosciuto con il suo originario titolo di La vie et l’esprit de Mr Benoît de Spinoza, pubblicato per la prima volta, anonimo e in francese, a L’Aia nel 1719 (uscito poi a sua cura nel 1994 per Einaudi).
Alla base del Trattato vi è l’idea che fondatori e predicatori di religioni possano essere degli impostori – i tre presi in considerazione sono appunto le figure centrali delle tre religioni monoteistiche, Mosè, Gesù e Maometto – che già attraversava la cultura europea nel ‘500-600 e ha un fondamento nella filosofia di Averroè. Tutto parte dall’idea che gli dei siano creazione umana e non viceversa, spiega Berti, basandosi fortemente sulla esegesi storico-critica e sull’analisi dell’immaginazione spinoziane, spalancando la porta all’ateismo. A questo viene legata l’idea dell’impostura, poiché l’identificazione di questo travisamento conduce anche a pensare che i primi i legislatori e fondatori delle tre grandi religioni abbiano fatto credere di avere una relazione speciale con Dio, andando a fondare in realtà delle monarchie; da ciò consegue che anche l’idea dell’origine religiosa del potere politico si fondi su un’impostura.
Nel testo, spiega quindi Berti, la tradizione erudita libertina, anche blasfema, si fonde per la prima volta con un’impostazione filosofica granitica, quella dell’Etica spinoziana,“e Spinoza viene largamente utilizzato, ma senza dirlo”. A questa corrente di pensiero Berti ha dedicato una raccolta di saggi, Anticristianesimo e libertà (Il Mulino, 2012), nel quale analizza la stagione intellettuale che attraversò l’Europa fra il 1680 e il 1730, da lei definita “certamente una stagione eroica, in cui lentamente ma coraggiosamente molti spiriti liberi dicevano addio alle proprie fedeltà confessionali e abbandonavano l’universo della dissimulazione per sbarcare in quello della esplicita denuncia dell’impostura religiosa”. Si tratta di quello che fu poi denominato ‘illuminismo radicale’ europeo, una sorta di “prima Internazionale degli intellettuali”, come scrive l’autrice, che in giro per l’Europa formavano un gruppo cosmopolita e unitario, mettendo al centro delle riflessioni di quell’epoca il tema della critica religiosa.
“Lo si vede anche dall’iconografia di quegli anni – osserva Berti – che rendeva più facilmente accessibile un discorso intorno alla religione, e un’opzione filosofico-politica, attraendo un pubblico non necessariamente colto”. Per spiegarlo cita l’esempio dell’incisore Bernard Picart, coraggiosamete convertitosi al calvinismo dopo la Revoca dell’editto di Nantes, la cui poderosa opera Cérémonies et coutumes religieuses de tous les peuples du monde mette a paragone tutti i culti religiosi allora conosciuti, intrecciandosi con i temi dell’illuminismo radicale. “L’originaria impostazione filosofica di Picart – scrive inoltre Berti nell’introduzione ad Anticristianesimo e libertà – si combina con una denuncia del carattere di impostura delle diverse religioni, approdando tuttavia alla realizzazione di un’opera che è la prima seria costruzione antropologica di tipo comparativistico: il bisogno intellettuale di sfidare e mettere in discussione il primato del cristianesimo, e in primo luogo il cattolicesimo, poneva le fondamenta di nuove discipline”.
Ed è proprio questo il contributo fondamentale di questa generazione di intellettuali secondo Berti, individuati come “il nucleo allo stesso tempo fondante e maggiormente durevole del contributo dato dall’Illuminismo alla formazione della modernità: esame critico delle religioni – elenca nel volume – rigorosa autonomia di giurisdizione di chiese e stato, disprezzo dei pregiudizi e delle superstizioni, attacco alle usurpazioni della Chiesa di Roma e alle caste sacerdotali, rifiuto dell’intolleranza e dell’esercizio illegittimo del potere politico, strenua difesa dell’autodeterminazione dell’individuo e delle sue libere scelte, nonché degli ideali democratici ed egualitari”. In questo processo – tiene a ricordare Silvia Berti – “il ruolo dell’ebraismo fu cruciale non solo attraverso la filosofia spinoziana, ma paradossalmente anche grazie ai suoi nemici, autori di trattati apologetici del giudaismo – dovuti alle menti più acute della comunità ex-marrana di Amsterdam – i cui argomenti contro la trinità e la divinità di Cristo fecondarono l’anticristianesimo della prima generazione degli illuministi europei”.
f.m.
“CAPIRE IL PASSATO, ECCO LA MIA RELIGIONE”
Silvia Berti: Mi piacerebbe sapere qualcosa in più sulla tua famiglia, soprattutto su tuo nonno Amadio Momigliano.
Arnaldo Momigliano: Il nonno Amadio era in realtà il fratello di mio nonno, che si chiamava Donato Momigliano ed è morto molto giovane. Amadio prese in casa a Caraglio mio padre quand’era ragazzo perché il nonno era malato di tubercolosi e allora si aveva una grande paura della tubercolosi; poi, alla morte del nonno, fu adottato proprio ufficialmente. Noi abitavamo nella stessa casa, sempre a Caraglio, e siamo sempre vissuti con quello che, di fatto, era un fratello di mio nonno. Marco era un altro fratello del mio vero nonno (che non ho mai conosciuto) ma Amadio era la più forte personalità della famiglia.
Tu dici, in The Jews of Italy, che studiava particolarmente lo Zohar.
Aveva una particolare cultura cabbalistica, e negli anni in cui l’ho conosciuto io, cioè dal 1914 al 1924, quando è morto, siamo praticamente vissuti nella stessa casa. Avevamo due appartamenti sopra e sotto, quindi ci mescolavamo continuamente nella vita quotidiana, e tutte le sere lui leggeva lo Zohar, naturalmente in ebraico. È lui che mi ha insegnato l’ebraico; mi scrisse una grammatica intera che ho conservato per molti anni. E i normali studi da bambino: avevo imparato i Proverbi di Salomone completamente a memoria. Ho ricevuto, insomma, l’educazione ebraica tradizionale, i testi che ognuno sa a memoria come il Pirke Avoth, le Massime dei Padri tutte a memoria, ecc.: educazione che si svolgeva in casa.
Quindi l’educazione era tutta in famiglia?
Completamente in famiglia, fino all’università. Come sai, non sono mai andato a scuola. Naturalmente, prendevo lezioni a Cuneo, ma l’educazione ebraica era tutta in famiglia; c’erano anche altri rabbini in famiglia come Disegni, che diventò il Direttore del Collegio Rabbinico di Torino. Una sorella di mio padre, Elvira, aveva sposato Disegni.
Negli studi classici, quando hai cominciato a interessarti al mondo greco?
Certamente, quando sono andato all’università, io intendevo laurearmi in greco. C’è stato un periodo, fra il primo e il secondo anno di università, in cui pensavo di fare una tesi su Menandro, ma appena diventai allievo di De Sanctis, lui mi disse: “Non faccia l’errore di laurearsi in greco; c’è un cattivo professore di greco”. Mi disse: “Si laurei con me”, e quindi mi sono laureato su Tucidide. Ma con De Sanctis c’era il presupposto che ognuno coltivasse i suoi propri interessi. Lui sapeva benissimo che io mi interessavo di cose ebraiche, oltre che greche e latine. E infatti, in pieno accordo con lui, appena terminata la mia tesi di laurea, mi misi a lavorare sui Maccabei. Del resto, De Sanctis aveva già diretto dei lavori sui Maccabei di quel rabbino Artom che era stato suo allievo e che poi andò a Gerusalemme.
Quello che mi colpisce è che queste curiosità intellettuali finiscano per convergere: questo interesse per le cose ebraiche diventa giudaico- ellenistico perché c’è il mondo greco, il mondo romano…
Ah, ma si capisce. A casa mia erano cose persino ovvie che il momento decisivo era questo, la formazione del cristianesimo, il contatto della cultura greca con la cultura ebraica. Fa un po’ ridere, ma letteralmente queste erano cose che sapevo prima dell’età di dieci anni, così com’ero perfettamente informato di Spinoza all’età di dieci, undici anni. Ricordo che Felice Momigliano arrivava e ci facevamo leggere Spinoza da lui. L’ultima volta che vidi Felice Momigliano doveva essere il ‘21 o al massimo il ‘22, quindi ti puoi immaginare, avrò avuto al massimo tredici o quattordici anni. Sono cose di cui non ci si rende più conto oggi, ma ho letto Renan verso gli undici anni. Quei ragazzi di allora erano più maturi e responsabili di quanto non siano stati, a quell’età, nelle generazioni successive… Ho letto anche i libri dell’Antico Testamento a dieci-undici anni, prendevo tutto dalla mia biblioteca di casa. Era forte anche l’interesse per il cristianesimo. Anche dei non ebrei erano parte integrante della cultura familiare, come Jemolo. Il volume sul giansenismo di Jemolo mi fu regalato da mio padre per il mio ventesimo compleanno, nel ‘28. Attilio Momigliano scriveva su Manzoni, Manzoni come cattolico. Quindi c’era anche questa presenza del mondo cristiano in famiglia. […]
Fra i diversi aspetti e le diverse caratteristiche delle varie culture ebraiche, mi sembra che tu abbia sempre riservato una particolare attenzione a quella tedesca.
È quello che conoscevo di più, anche perché ho avuto dei fortissimi contatti con questa povera gente che lasciava la Germania. Ho conosciuto, per esempio, Herbert Bloch. Questa è la cultura ebraica che conoscevo di più, a parte l’italiana, anche se più tardi ho sentito molta più simpatia per gli ebrei russi, che sono più genuini, mi pare, rispetto a quelli tedeschi. […]
Senti, e la scelta dei Maccabei rispetto a un altro tema? Per il loro essere un simbolo di resistenza, vero?
Oh, dico, senza dubbio.
Rispetto alle questioni che ha tirato fuori Yerushalmi riguardo ai rapporti tra ebraismo e storiografia, lui mette in contrapposizione memoria e storiografia. Dice che in fondo il passato ebraico è sempre stato mantenuto dalla tradizione…
Credo che lì abbia perfettamente ragione. Cioè che la forma tradizionale del pensiero storico ebraico dopo Giuseppe Flavio… Insomma, gli ebrei rivivono ogni anno certe cose… Pesach, ecc… Il ricordo.
Come si spiega invece, secondo te, questa esplosione di storiografia ebraica nel ‘900?
Siamo diventati occidentali! È una delle forme naturali dell’occidentalizzazione del giudaismo. Nel giudaismo di oggi uno può continuare la tradizione, le forme talmudiche, che sono le forme tradizionali, ma se no deve cominciare a pensare storicamente, deve anche decidere se Jahvè è esistito o no.
Infatti, è la risposta che mi davo anch’io. Soltanto mi chiedevo se questo non abbia significato un prezzo pagato in termini religiosi.
Si capisce che lo ha significato, ma è un prezzo che pagano tutti. Uno può conservare ed elaborare una tradizione religiosa anche in termini differenti, cioè moderni. Ma questo vale per il cristianesimo come per il giudaismo. Da quel punto di vista lì, ebrei e cristiani oggi avranno altre ragioni di dissentire, ma non quella di accettare il metodo storico e cercare di comprendere il proprio passato facendosi delle domande di tipo storico. […]
E poi d’altro canto mi sembra che, come dire, da un lato ci sia un aspetto di secolarizzazione, rappresentato da questo grande sviluppo della storiografia e quindi dall’adattamento della ricerca al metodo storico ‘occidentale’ come tu lo chiami, non in riferimento semplicemente a una tradizione o a una religione; dall’altro, però, quest’enorme crescita della storiografia ha portato anche a un incremento di interesse proprio intorno al problema religioso.
Non solo, ma anche permette una certa connessione fra passato e presente, nel senso di capire quello che gli altri tuoi antenati pensavano e sentivano, come hanno organizzato la propria vita, e anche rendersi conto che quel che t’importa della tradizione religiosa non è soltanto decidere se ci sono gli angeli o se c’è il purgatorio, o anche se c’è Dio nel senso preciso di una persona con cui puoi discorrere, ma c’è anche tutto il resto di uno stile di vita, di conoscere i propri debiti. Io certo sento un enorme debito per la mia tradizione, tradizione di studi, di vita famigliare, o anche il fatto di ricordare, di sentire centomila cose che rappresentano la tua propria tradizione di vita. E poi c’è tutto questo sentire in termini poetici, la tradizione poetica. Studiare la storia degli ebrei significa poi anche capire l’ebraico, sentire delle voci con cui uno discorre. Dico, non c’è necessità di accettare le teorie di Maimonide per rispettare che cosa diavolo Maimonide abbia rappresentato, o Jehudah Halevi o chi altro. C’è una direzione della propria vita personale che è la comunicazione col passato e sul passato più recente non si può scherzare. In definitiva, secondo me, il pensiero storico che guarda seriamente a queste cose è una forma di vita religiosa.
Pisa, marzo 1987
(da Pagine Ebraiche, Conversando con Arnaldo Momigliano)
“I NOSTRI SHABBAT A CARAGLIO, NEL SEGNO DELLA LIBERTA'”
Sono nato a Caraglio (Cuneo) nel settembre 1908 e là sono rimasto in famiglia, studiando privatamente, in parte con professori di Cuneo, per il ginnasio e il liceo, finché fui ammesso all’Università di Torino nel 1925. Tra gli Ebrei della mia generazione io sono stato uno dei pochi che hanno avuto una educazione strettamente ortodossa. Amadio Momigliano, fratello di mio nonno Donato, aveva adottato mio padre Salomone Riccardo, dopo la morte di mio nonno Donato. Per me e le mie sorelle “zio Amadio” fu naturalmente il nonno paterno e tale lo considererò qui (1844-1924). Era un modesto uomo d’affari e un modesto proprietario di terre e come tale rimase attivo fino alla vigilia della morte. Ma era uomo di profonda pietà, che combinava con un senso civico intenso. La sua ospitalità, il suo amore e la sua competenza in testi ebraici e aramaici dalla Bibbia in poi e la sua attenzione ai movimenti sociali europei erano eccezionali. Ai suoi ottant’anni i rabbini d’Italia (tra cui c’era Dario Disegni, che aveva sposato una sorella di mio padre) gli offrirono un diploma rabbinico honoris causa che accettò con piacere, ma senza dire parola. Quello che era individuale in lui e ne aveva fatto un lettore e amico di Elia Benamozegh, il rabbino mistico di Livorno, era il suo studio continuo e il rispetto per lo Zohar, il testo mistico medievale. Passava negli ultimi anni le sue sere a leggere lo Zohar in aramaico, ma non ne parlava e discuteva mai, nemmeno, credo, con rabbini che lo venivano a trovare. Se in anni anteriori ne avesse discusso con il suo venerato fratello Marco, l’insigne rabbino di Bologna, non so. Era questo il mondo più suo, non di pratica ma di teoria, che non comunicò mai né a mio padre, né a me che ero il suo nipote prediletto. Ho cercato di sapere più tardi se c’erano tradizioni di studi cabbalistici in famiglia o in ambienti vicini, ma pare non ce ne siano. Era una religione chiusa nella famiglia. Ci trasferivamo a Cuneo (dove tenevamo appartamento apposito!) solo per il capo d’anno ebraico e per il Kippur. Per questo non posso separare i miei sentimenti domestici dalle cerimonie religiose di ogni giorno e soprattutto del Sabato in cui tutto cambiava. […] La mia vera esperienza di religione ebraica è in questa intensa, austera, pietà domestica. I figli che sono benedetti dal padre il venerdì sera, la mamma che abbraccia marito e figli. […]
L’atmosfera di discussione in questa casa così ortodossa era estremamente libera. Dal socialista (deputato al parlamento e poi senatore) Riccardo Momigliano, che aveva poche simpatie per il Giudaismo, al nipote di Amadio e primo cugino di mio padre, Felice, professore del magistero di Roma, suicida nel 1924, ebreo profondamente, ma combinando mazzinianesimo, socialismo idealista e soprattutto l’insegnamento etico di Gesù, separato da note redentive. Frequente visitatore della nostra casa anche per lunghi periodi fino al 1922, Felice fu il mio secondo maestro: da lui imparai di profetismo, di Mazzini, di socialismo e anche i primi elementi del latino e del greco. Potrà far sorridere che già a otto-dieci anni io pensassi al Deus-Natura di Spinoza, come alternativa al dio dei profeti; ma non può far sorridere che mio padre, nell’ultima sua lettera che ricevetti attraverso la Svizzera nel 1942, mi dicesse di trovare consolazione (poco prima di essere assassinato con mia madre dai nazisti) nei Profeti e in Spinoza. […]
A Caraglio il nostro ebraismo era rispettato. “‘l cavaier Amadiu”, sebbene fuori della politica attiva, era legato a tutte le società locali di mutuo soccorso e di carità; “‘l cavaier Ricardo” fu sindaco di Caraglio tra il 1917 e la fine della guerra. Mazzini era per noi il legame tra Giudaismo e Risorgimento italiano, e il patriottismo non era in questione. Non intendo qui parlare del periodo fascista. […] Ma qualunque cosa si scriva su quel periodo che finisce con fascisti e nazisti collaboranti nell’inviare milioni di ebrei ai campi di eliminazione (e ci sono tra le vittime mio padre e mia madre), una affermazione va ripetuta. Questa strage immane non sarebbe mai avvenuta se in Italia, Francia e Germania (per non andare oltre) non ci fosse stata indifferenza maturata nei secoli per i connazionali ebrei. L’indifferenza era l’ultimo prodotto delle ostilità delle chiese per cui la ‘conversione’ è l’unica soluzione al problema ebraico. Va qui solennemente ripetuto che gli Ebrei hanno diritto alla loro religione – la prima religione monoteistica ed etica che la storia ricordi, la religione dei profeti di Israele. Da essa ancora dipende la nostra moralità. Chi, in Italia, Francia, Germania e altrove, impedisce agli Ebrei del luogo di esercitare il proprio culto è colpevole di implicita o esplicita barbarie.
Luglio 1987
Arnaldo Momigliano (Hospital of the University of Chicago)
(dalla prefazione a Pagine Ebraiche)
(Da Pagine Ebraiche ottobre 2016)
(5 ottobre 2016)