VERSO YOM KIPPUR Dalla risposta alla responsabilità
C’è una sorprendente analogia linguistica fra Yom Kippur e Pessach. Per entrambe le feste la Torah adopera la stessa radice ‘anah che significa “essere afflitti”. La Matzah è chiamata lechem ‘oni, lachmà ‘anyà in aramaico, ovvero “pane dell’afflizione”. Anche a proposito del digiuno di Yom Kippur cinque volte la Torah scrive we’innitem et nafshoteykhem, “affliggerete le vostre anime”. Sappiamo peraltro che questo verbo ha anche un altro significato: rispondere. E parlando del lechem ‘oni i nostri Maestri dicevano che la Matzah è un pane she- ‘onim ‘alaw devarim harbeh, “sul quale si danno molte risposte”. Se applichiamo lo stesso gioco di significati a Yom Kippur, l’ingiunzione del digiuno assumerebbe un sapore tutto particolare. Con un minimo di ardimento grammaticale potremmo reinterpretarla: “mettete le vostre anime in condizione di rispondere”! Di chi? Di se stesse, naturalmente. Ad onta di chi pensa che l’Ebraismo sia una cultura di sole domande, in cui ci si limita ad interrogarci e poi ciascuno è libero di regolarsi come più gli pare e piace, non è così. Le domande sono sempre finalizzate ad una risposta, le discussioni talmudiche sono sempre indirizzate alla ricerca di una soluzione e la risposta/soluzione si chiama assumersi la propria responsabilità. Potremmo concludere affermando che a Yom Kippur la persona è chiamata a rispondere di se stesso in quanto individuo, l’individuo ricreato dal Giudizio Divino, nella misura in cui a Pesach ciascuno di noi è chiamato a farlo in quanto membro di una collettività, il popolo ebraico uscito dalla schiavitù. Le due feste, ricorrendo a circa sei mesi l’una dall’altra, costituiscono perciò un monito forte e costante in tal senso. Ma la realtà è a ben vedere ancora più affascinante. La Parashah di Yom Kippur contiene un contrappunto. “Non farete come si fa nella Terra d’Egitto, né farete come si usa nella terra di Canaan verso la quale Io vi sto conducendo” (Wayqrà 18,3). La Torah nomina qui due realtà statali dell’antichità come altrettanti esempi negativi. Spiegano i Maestri che l’Egitto era il simbolo dell’idolatria, mentre la terra abitata dai Cananei rappresentava i facili costumi. Argomenta lo Sfat Emet di Gur che nel primo caso il popolo ebraico prese le distanze in modo risoluto. Appena usciti dall’Egitto giunsero al monte Sinai e lì waya’anù, “risposero”. Che cosa? Na’asseh we-nishmà’, “faremo e ascolteremo”. Si assunsero in toto la responsabilità di accettare la Torah il cui scopo, dice il Maimonide, è precisamente quello di sradicare l’idolatria dal mondo. La Torah che prescrive, fra tante altre cose, di non ritornare mai più in Egitto. E per il merito di questa accettazione la Torah è rimasta possesso perpetuo del popolo d’Israele. Ad onta di tanti tentativi in contrario, nessuno è mai riuscito a portarcela via. Diverso il caso di Canaan e di ciò che simboleggia. Già nel deserto i Figli d’Israele espressero dubbi in proposito. E quando giunsero a quella terra dopo quarant’anni di peregrinazioni e la conquistarono sotto la guida di Yehoshua’, alla morte di questi si rifiutarono di affrontare la cultura cananea con la stessa fermezza e determinazione che avevano manifestato nei confronti di quella egiziana. Il primo capitolo dei Giudici testimonia i compromessi, politici e morali, che segnarono quell’epoca decisiva: “ciascuno faceva ciò che gli pareva giusto ai suoi occhi” (17,6). Per questo motivo la Terra non ci fu garantita per sempre con la stessa decisione con cui ci fu data la Torah. Ancora oggi soffriamo di questo problema, che infiniti addusse lutti agli Ebrei. È mancato, sotto questo aspetto, il waya’anù. Non c’è stata la risposta, in quanto assunzione di responsabilità piena da parte nostra. Alla Haggadah di Pessach resta ancora da commentare un’ultima parte, quella corrispondente al versetto: “…e ci ha condotto in questo luogo, dandoci questa terra che stilla latte e miele” (Devarim 26,9). Il verbo “rispondere”, all’inizio di questo brano (v.5), è e rimane al futuro: we-‘anìta. Alla stregua di un desiderio tuttora da realizzare. Ma torniamo a Yom Kippur. Che risposta sono chiamate a dare oggi le nostre anime? Manifestandoci gli esempi negativi degli Egiziani e dei Cananei, la Parashah ci invita a prendere le distanze da ogni atteggiamento frivolo e superficiale, di cui quelle società consumiste e materialiste sono il simbolo, ieri come oggi. Qualsiasi iniziativa, anche quella che non è oggetto di alcuna specifica prescrizione, deve essere portata avanti con spirito ebraico e non “come si fa nella terra d’Egitto”. Il modo migliore per conseguire tale scopo, per quanto laico e profano possa essere, consiste nel legarlo ad una Mitzwah: “che tutte le tue azioni siano in Nome del Cielo”. “Conosci D. in tutte le tue vie, ed egli raddrizzerà le tue strade” (Mishlè 3,6). Per metterci seriamente in questo ordine di idee occorre in via preliminare un profondo tiqqun ha-middot, “perfezionamento del carattere”. I nostri Maestri affermano che derekh eretz qademah le- Torah, “il perfezionamento morale è un prerequisito persino per lo studio della Torah”. Lo Sfat Emet identifica i principali difetti che siamo chiamati a correggere con quelli contenuti nell’affermazione dei Pirqè Avòt: “la gelosia, il desiderio materiale e la ricerca di onori escludono l’uomo dal mondo” (4,21). Un voto importante e impegnativo cui non possiamo sottrarci per l’anno entrante. E, così speriamo, per tanti anni ancora.
(nell’immagine il quadro “Le shofar” di Marc Chagall, 1911, Centre Pompidou)
Alberto Moshe Somekh, rabbino
Pagine Ebraiche, ottobre 2016