Essere ebrei ad Istanbul
Entrare nella sinagoga Neve Shalom di Istanbul è come prendere un volo da Londra a New York. I controlli e le verifiche sono pressoché gli stessi. Nel giorno di Rosh haShanah la sinagoga del 1951, già “ingabbiata” con porte tagliafuoco dentro un edificio moderno, è presidiata su ogni lato dell’isolato da sicurezza privata, polizia, e Jandarma (esercito) con tanto di blindato. Come in ogni altra sinagoga del paese, la tendenza da parte della polizia, è di allontanare qualunque esterno, anche se solamente intenzionato a partecipare alla funzione. Non a caso qui avvennero due dei principali attentati contro luoghi di culto della diaspora, provocando insieme 80 vittime, nel Settembre 1986, e nel Novembre 2003. Eppure è comunque suggestivo trovare una sinagoga completata nel dopoguerra, nel pieno centro di una città, proprio dietro la torre di Galata, in un territorio poi dove l’Islam è di casa. L’Adhan rimbomba sempre in Büyük Hendek Caddesi, a volte forse si potrebbe confondere con il suono dello Shofar suonato da officianti in camice bianco, simili a caftani ottomani. Queste ed altre immagini di secolare convivenza, potrebbero far pensare che per i 14.000 ebrei di Istanbul e le loro decine di sinagoghe attive, vi sia ancora un futuro prospero. Ma la Turchia non è solo il quartiere all’europea di Galata o il cuore laico e repubblicano di Izmir, è anche una gioventù spesso imbevuta di ambiguo antisionismo, o ne fanno parte quei passages nei pressi di Istiklal Cadessi dove non è difficile trovare sulle bancarelle i Protocolli dei Savi di Sion, e in definitiva, è un regime sempre più nazionalista che avanza verso un’ultramodernità liberista in affinità con imam wahhabiti e con la popolazione più tradizionalista, dove la minoranza non può essere altro che l’elemento estraneo da espurgare.
Francesco Moises Bassano
(7 ottobre 2016)