Comparare per non confondere
Sulla questione degli universi concentrazionari nella storia del Novecento a volte occorre tornare sui fondamentali, come direbbero gli inglesi. Mai dare per acquisita e assodata la loro cognizione storica; tanto meno la comprensione della loro natura, in rapporto ai regimi che li hanno edificati e diffusi, tutelandone il “marchio di fabbrica” (della serie: siamo stati capaci di fare quelle cose terribili e, in fondo, ne meniamo vanto). Anche perché non solo la ricerca ma soprattutto lo stesso dibattito pubblico tende a mutare nel corso del tempo pur rischiando, soprattutto il secondo, di ripetere una sfilza di luoghi comuni. Non di meno, se si può pensare di pervenire a certi risultati di conoscenza parziali, molto più difficile è pensare che si possa ottenere un “blocco immagine” definitivo, ossia un giudizio ultimativo, rispetto a delicatissime questioni che rimandano soprattutto al nodo vitale delle vittime e al loro riconoscimento pubblico. Se qui la questione è di natura morale non di meno, in immediato riflesso, essa evoca le responsabilità politica intesa come intenzione e progetto, processo e risultato dei carnefici. Porre a confronto i Lager con i Gulag nella storia del Novecento è quindi senz’altro una necessità di ordine comparativo per meglio comprendere la specificità di regimi politici che avevano fatto della violenza di Stato, e con essa del ricorso al terrore, un loro imprescindibile tratto distintivo. Se ne parlerà quindi a Bari, il 14 e il 15 ottobre, nell’ambito del quinto Corso di storia e didattica della Shoah organizzato dal Dipartimento di studi umanistici dell’Università degli Studi Aldo Moro. Non a caso il titolo è dedicato a «la violenza di Stato nel Novecento: Lager e Gulag». La partecipazione è aperta anche al pubblico generalista ma è indirizzata soprattutto agli insegnanti che intendano lavorare, nelle sessioni in cui si articola il corso, su questi temi. Di queste istituzioni totali dell’oppressione, della persecuzione e della distruzione di massa si affronteranno una pluralità di aspetti, evidenziandone alcuni elementi fondamentali. Il primo di essi è la definizione della natura degli oggetti storici, nella loro materiale concretezza, e quindi degli eventi ad essi connessi, sia dal punto di vista del loro manifestarsi sia sul versante della comparazione storica e storiografica. Quindi, cosa è un gulag, cos’è un lager, come li si affronta in una classe, tra i giovani, così come anche nella discussione in pubblico. A tale impegno, più strettamente legato all’approccio storico, si lega un secondo aspetto, che rinvia a due piani interconnessi e che saranno specifici oggetto d’analisi: l’impatto morale e culturale di quelle vicende sulla costruzione di una coscienza europea; la rielaborazione in chiave visuale ed estetica dell’esperienza dei sopravvissuti nella cultura contemporanea. Rilevante è, in tal senso, l’indagine sul rapporto, in sé estremamente articolato, tra stagioni della memoria, influenza della politica nella formazione di un comune sentire dal dopoguerra in poi, evoluzioni e trasformazioni della cultura e delle espressioni visuali e artistiche. Se ne faranno ripetute menzioni e più esempi, per l’appunto tra relazioni e laboratori didattici. Solo qualche “avviso ai naviganti”, affinché da subito non si creino indebite confusioni, sgradevoli contrapposizioni ma, soprattutto, intollerabili parificazioni. La comparazione rigorosa è parte integrante del percorso di riflessione storica. Nel tentativo di stabilire nessi o ricorrenze, tuttavia, si identificano e si mantengono anche e soprattutto le distinzioni. Gli uni e le altre non sono tanto giudizi di ordine etico (ovvero formulazioni di valore esercitate dall’esterno, osservando un fenomeno) ma riscontri di natura emica, ossia dal di dentro dei fatti storici medesimi, cercando di calarsi, nel limite delle proprie competenze, degli strumenti che si hanno a disposizione, dei dati che si conoscono e di ciò che da essi si ottiene, dentro le dinamiche che li connotano. Questo esercizio, ancorché molto difficile poiché traslato, diacronico, ossia compiuto al di fuori del campo dei fatti in quanto tali, già avvenuti, consumati, conclusi, è comunque parte del lavoro dello storico. Terreno scivoloso ma obbligato. Detto questo va precisato, al di là di ogni residuo dubbio, che la comparazione è il procedimento che porta ad evitare le parificazioni, ovvero quei procedimenti di falsa deduzione che sono anticamera delle “pacificazioni”, ossia le indebite associazioni tra eventi storici diversi, accomunati, in quanto obbrobri, ad una sorta di macelleria indistinta. Che è poi parte integrante di ciò che invece chiamiamo, anche con connotazione spesso negativa, “revisionismo”. Diceva il filosofo che, altrimenti, si dà «la notte in cui tutte le vacche sono nere». Una espressione che significa, al medesimo tempo, una speculazione incapace di cogliere la contraddittorietà e la complessità del reale così come un giudizio politico che, astraendo dai dati storici concreti e determinati, fa di tutta l’erba un fascio. A tale riguardo esiste e persiste senz’altro un revisionismo conservatore, che istituisce degli immediati nessi di causalità diretta tra i crimini stalinisti e quelli hitleriani per attenuare – con la scusa di spiegare meccanicamente gli eventi storici con un unico rapporto diretto di causa ed effetto – le colpe dei nazisti, ponendole esclusivamente o prevalentemente sotto la responsabilità dell’agire del comunismo come tale. Il quale avrebbe scatenato, con la sua violenza, una reazione difensiva tanto sproporzionata quanto “comprensibile” dal punto di vista delle classi dirigenti tedesche, così come anche del ceto medio e della borghesia germanica, impaurite dall’avanzare del “bolscevismo”. Lo sterminio di razza, affermano quindi i revisionisti di tale fatta, sarebbe la conseguenza di questo stato di cose. Si tratta di una tesi oramai vecchia di alcuni decenni, sottoposta a mille critiche e che tuttavia riaffiora costantemente, presentandosi come una unitaria interpretazione delle vicende intercorse tra gli anni Venti e gli anni Quaranta del Novecento. Quasi a volere dire: pari e patta, i due regimi si equivalgono, punto e basta. Così anche i morti. Ma esiste, non di meno, un revisionismo di sinistra che, nel levare le sue martellanti accuse contro l’«imperialismo» (in tutte le sue varianti lessicali, terminologiche, storiche, emotive e così via), riduce la storia del passato, ma anche il vissuto del presente, ad una sorta di sanguinolenta marmellata, dove tutto si fa, per l’appunto, indistinto. Auschwitz starebbe anche a Guantanamo o Abu Ghraib, per intenderci. A questo punto va ricordato che l’indistinzione è sempre e comunque l’anticamera della banalità. Anche se si esercita sotto l’ombrello dei “buoni sentimenti” e delle “migliori intenzioni”. Si sa, d’altro canto, che degli uni e delle altre sono lastricate le vie dell’inferno. Poiché la banalizzazione è il vero muro portante dell’ideologia che non muore mai, tanto più quando essa si occulta sotto il sembiante della disinvolta e “indignata” accusa, variamente articolata sul piano qualunquistico, del «sono tutti uguali» oppure, specularmente, del «si parla troppo di certe cose per non parlare di altre». In genere, quando ci si trova dinanzi a tali fallaci ma reiterate obiezioni, ripetute con maniacale persistenza da parte di certuni, si hanno due possibilità: adoperarsi in una compassione pedagogica che tuttavia richiede la forza di arrampicarsi per i grattacieli dell’altrui ossessione; oppure, chiudere fragorosamente le porte, dichiarandosi anticipatamente sconfitti. Poiché, francamente, proprio di quelle obiezioni paralizzanti, in sé intrinsecamente censorie in quanto essenzialmente indirizzate a screditare il lavoro dello scienziato sociale, si coglie che sono opera non di giudizio ma di pregiudizio, avverso al quale la contro-analisi raziocinante spesso può poco se non nulla. Esse alimentano infatti un bisogno che non è di conoscenza critica ma piuttosto di visione rigidamente ideologica del mondo. Che è spesso speculare, nelle sue strutture mentali, proprio a ciò che si dice di volere altrimenti contestare. Come parte del coordinamento scientifico di questo corso in ambito universitario, rivolto alla docenza, una categoria professionale che necessita di comunicazioni chiare e, al contempo, dialetticamente feconde, il sottoscritto e i suoi colleghi si impegnano, come di loro prassi, per evitare qualsivoglia strumentalizzazione, banalizzazione, ideologizzazione, anche perché il prezioso lavoro che si fa con tante persone, a partire da quanti vengono per ascoltare e comprendere, quindi per maturare un’idea, non deve essere trascinato dentro il populismo mediatico dei grandi minestroni degli indignati “J’accuse!” più o meno compiaciuti (e inetti), oggi molto di moda. Lo facciamo da sempre poiché non è solo parte della nostra identità professionale ma del modo di intendere la cittadinanza attiva. L’impostazione dell’offerta didattica, culturale nonché l’impianto scientifico del corso di aggiornamento è netto, occupandosi di due istituzioni totali, i Lager e i Gulag, della storiografia di merito come della riflessione morale e filosofica in materia. Basta e avanza, non trattandosi della rimozione di altri crimini e neanche di disinvolte associazioni ma di una finalizzazione didattica dell’analisi di due “idealtipi negativi” nelle violenze di Stato del Novecento. Come avrebbe detto una vecchia ma saggia insegnante di scuola media, ai suoi studenti: bisogna sapere stare al punto richiesto; per poi, eventualmente, andare anche oltre esso.
Claudio Vercelli
(9 ottobre 2016)