…verdetti
Si può essere proiettati verso il futuro e ottimisti quanto si vuole, si possono chiudere gli occhi davanti alla storia fino a non distinguere la luce dalle tenebre, ma c’è una preghiera nella liturgia ashkenazita di Kippur che non consente all’ebreo di dimenticarsi del proprio passato. Chi di ciò si dispiace può passare ad altra lettura.
Erano tempi di persecuzioni e di massacri, come al solito, quando Rabbi Amnon di Magonza si sottomise a tortura e martirio pur di non rinunciare alla propria identità di ebreo e, in fin di vita, sanguinante e mutilato, pronunciò in sinagoga una terribile preghiera, Un’tanéh Tokef Kedushat Hayom (Proclamiamo la santità di questo giorno), che il pubblico non riuscì naturalmente a mandare a memoria. In seguito, Rabbi Amnon apparve in sogno a Rabbi Kalonymos ben Rabbi Meshullam ben Rabbi Moshe ben Rabbi Kalonymos e gli dettò la preghiera, attestata per la prima volta in una fonte del tredicesimo secolo (Or Zarua, di Rabbi Itzchak ben Moshé di Vienna), ma che, secondo frammenti recuperati nella Genizà del Cairo, risale forse all’ottavo secolo. Quella di Rabbi Amnon è leggenda, naturalmente, ma né incredibile né troppo diversa dalla storia che i nostri antenati ebbero a subire nei secoli.
Un’tanéh Tokef, terribile e straziante, percorre la varietà dei verdetti stabiliti e iscritti per ciascun ebreo a Rosh Hashanàh, verdetti che a Kippur vengono sigillati e ratificati, ma che il giudizio divino può sospendere, se ci si pente, se si prega, se si fa la carità (teshuvàh, tefillàh, tzedakàh). Ora, la sospensione del giudizio di condanna sembra a portata di mano, ma se è facile fare tzedakàh aiutando un bisognoso, e se pregare digiunando sembra un’azione eroica che valga il perdono divino, pentirsi è un’azione che implica disposizione e sentimenti di cui non riusciremo mai a garantire a noi stessi la spontaneità e la sincerità. Pentimento, ossia ritornare al divino ritornando all’originaria purezza della nostra anima è un’impresa impossibile, che comporterebbe quanto meno la promessa di non ‘ritornare’ a macchiarsi di antiche colpe. La purezza, purtroppo, dura il tempo di concepirne l’impossibilità. Il resto è quotidiana umanità e, al di là di vuote e illusorie parole, l’impossibilità di essere perdonati perché non riusciamo a perdonarci.
Dario Calimani, anglista
(11 ottobre 2016)