“Impariamo a esser giudici di noi stessi e a usare le parole per unire”
“Dio nostro e dei nostri padri, non ci lasciare, non ci abbandonare, non ci svergognare, non cancellare il tuo patto con noi; avvicinaci alla tua Torà, insegnaci i tuoi precetti, mostraci le tue strade…”
Queste sono alcune righe della preghiera che leggeremo tra pochi minuti. È la preghiera di chi si sente senza riferimenti, di chi rischia l’abbandono, di chi vuole trovare la strada smarrita. La preghiera di Israele esprime le sue necessità collettive accumulate in millenni di storia. Vi sono momenti in cui queste necessità non si avvertono tanto, altri in cui si pensa che le soluzioni non siano quelle richieste dalla preghiera; altri momenti in cui le parole pronunciate in una lingua considerata estranea non vengono neppure capite, prima ancora di essere condivise. Eppure queste preghiere sono un documento essenziale, una chiave per capire la nostra vita, una guida che potremmo anche mettere in discussione, ma non possiamo fare a meno di conoscere.
L’anno che è passato non è stato un anno buono per la nostra Comunità, per questo Paese, per l’Europa. È stato anno di crisi economica non risolta, di catastrofi naturali, di attentati terroristici islamici; e su questo sfondo la nostra Comunità ha dovuto gestire l’emergenza di una crisi giudiziaria che ha coinvolto uno dei suoi Enti, con conseguenze negative sulla nostra immagine e ripercussioni economiche dalle quali sarà molto faticoso emergere e che hanno imposto tagli dolorosi in settori essenziali. Sarebbe bello poter dire che da questi fatti usciamo rinforzati. Abbiamo reagito ma non ne siamo ancora usciti. Proprio il giorno di Kippur trasmette un insegnamento importante, quello di saper gestire i fatti negativi. Lo dice la preghiera dell’Untanè Toqef: La teshuvà, la preghiera e la tzedaqà fanno passar via et roa’ haghezerà, il male degli eventi cattivi. Non gli eventi cattivi che non possiamo evitare più di tanto. Ma il male che li accompagna. Male di sofferenza personale, di ulteriori divisioni, di perdita di speranza. L’antica ricetta appunto ci dà una chiave di comprensione e mostra una via di uscita. Che dipende molto da noi.
Tra le tante cose che insegna la storia del profeta Jonà, che abbiamo letto poco fa come haftarà di Minchà, c’è la potenza di un piccolo atto di ravvedimento. Il profeta che aveva fatto di tutto per sottrarsi ai suoi doveri, scappando e mettendo in pericolo sé stesso e i compagni di viaggio, è dal ventre di un pesce che l’ha ingoiato che chiede scusa. Con una pistola puntata alla tempia è facile chiedere scusa. Eppure gli basta questo per riconciliarsi e ottenere il perdono. Ci vuole poco per ricominciare. In questi giorni così intensi il richiamo alla teshuvà coinvolge tutti, ognuno dovrebbe farlo per sé stesso e per chi gli è vicino o per chi può ascoltarlo.
Chiaramente, quando si parla di teshuvà si devono mettere in conto, per criticarli, i comportamenti scorretti; ma c’è il rischio di ergersi a giudici non richiesti e senza autorità. Persino a Mosè venne rinfacciato, all’inizio del suo percorso di ritorno all’ebraismo: “chi ti ha messo come principe e giudice su di noi”.
Mettersi a criticare, poi, sebbene sia necessario, rischia di trasformarci in accusatori e pubblici ministeri che sottolineano solo gli aspetti negativi degli imputati per arrivare alla condanna. E non è che ci manchino già gli accusatori e coloro che ci sono ostili. La virtù è quella di trovare il giusto equilibrio tra colpe e meriti, tra assoluzioni a tutti i costi e condanne senza appello. Ci penserà Qualcuno dall’alto a valutare il peso delle nostre azioni, e la bontà delle nostre intenzioni. Per quanto riguarda noi, questo è il momento speciale per tutti di essere severi e insoddisfatti con noi stessi, per poterci migliorare, ma nel rapporto con gli altri di riscoprire, in contrapposizione all’odio, la grande e difficile virtù dell’ahavàt Israel, dell’amore per il popolo d’Israele. E purtroppo abbiamo tutti quanti uno strumento potente per seminare divisione, disprezzo e odio: questo strumento è la nostra lingua, la parola.
La parola è ciò che distingue l’uomo dall’animale, è il suo principale strumento di comunicazione, ma può essere strumento di distruzione. In questa giornata abbiamo letto varie volte, e tra poco la ripeteremo, la confessione dei peccati, che è collettiva al plurale e in ordine alfabetico, per due volte: una elenca le colpe e l’altra i modi per commetterle. La lashon harà’, la maldicenza, compare in entrambe le liste. Controllare la propria lingua è tra le cose più difficili da fare. In questo giorno abbiamo esercitato e imparato, o almeno avremmo dovuto imparare, ad usare la lingua per dire cose belle, per purificarci, per raccontare storie che fondano la nostra identità.
Proviamo da ora in avanti a fare l’esercizio più difficile, quello di controllare le parole e di rispettare gli altri. Usiamo i nostri mezzi per unire, costruire, seminare solidarietà. In questi momenti solenni, benché rari nell’anno, gran parte della Comunità si ritrova insieme, e dovrebbe mettere da parte orientamenti e pensieri differenti, divisioni politiche e religiose, origini e stato sociale, per vivere esperienze collettive di salita spirituale. Bisogna comprendere la forza incredibile che possiamo avere grazie a queste esperienze. Forse non riusciremo a evitare la confusione e il chiasso che disturba le preghiere purtroppo poco comprese, ma ci sarà silenzio al momento solenne della berakhà nella ricomposta unità dei gruppi famigliari, commozione al passaggio dei sefarìm, liberazione collettiva al momento del suono dello shofàr. Dobbiamo comprendere questa forza che nasce, anche se spesso inconsapevolmente, dall’unione tra di noi e dal legame contemporaneo con il Signore benedetto. Caricarci di questa forza e portarcela con noi a casa, in famiglia, nel lavoro quotidiano.
Questa giornata non avrebbe senso se non ci fosse un ottimismo di fondo, una certezza di speranza, una fiducia illimitata sia nella misericordia divina che nelle nostre capacità di migliorare. È questa speranza che ci guida nell’ora di ne‘ilà di chiusura delle porte del cielo, con le parole del profeta Isaia (58:8) che abbiamo letto questa mattina:
“Allora la tua luce esploderà come l’aurora e la tua guarigione spunterà rapidamente, la tua giustizia ti precederà e la maestà del Signore ti seguirà.”
חתימה טובה, תזכו לשנים רבות
Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma
(12 ottobre 2016)