Unesco-cultura, due cose diverse
Le infinite polemiche sulla recente risoluzione dell’Unesco a proposito dei luoghi sacri ‘contesi’ di Gerusalemme hanno messo a fuoco molti argomenti, ma ne hanno scordato qualcuno di piuttosto interessante.
Chi ha accusato l’Unesco di non riconoscere l’identità ebraica dell’area contesa / condivisa – la spianata del Tempio o spianata delle Moschee – esagera di molto la portata della risoluzione: non è vero che essa non riconosca “l’importanza della Città Vecchia e delle mura per le tre religioni monoteistiche”: lo fa esplicitamente, e chi non lo riconosce strumentalizza la risoluzione a fini politici, e non fa un buon servizio alle ragioni di Israele, questo è chiaro.
Ma c’è anche chi non riconosce, d’altra parte, che la risoluzione è vergognosa per altri motivi ben precisi e innegabili. È vergognosa (e vergognosamente di parte) perché non riconosce l’identità prioritariamente ebraica del Monte del Tempio, dell’Har haBait. Qualcuno dovrebbe ricordare che le moschee furono costruite apposta sopra a qualcosa che preesisteva loro: i resti dell’antico e mai dimenticato Tempio di Salomone.
È soprattutto vergognosa la risoluzione per motivi che nessun mezzo di stampa ha debitamente evidenziato: ha un carattere detestabilmente politico. Per diciassette volte Israele vi è definito un paese ‘occupante’. Ora, si può liberamente discutere se Israele sia occupante (lo sospetto anch’io) o se si sia ripreso luoghi che, dopo una guerra vinta, si è tenuto. Come ha fatto l’Italia con il Sud Tirolo / Alto Adige, o la Jugoslavia con l’Istria, e via dicendo. Quale paese, dopo una guerra persa, ha mai osato chiedere la restituzione dei territori ‘perduti’/’conquistati’/’occupati’. C’è spazio per analogie e differenze, lo sappiamo, ma c’è anche spazio per una buona dose di ragioni. Ragioni storiche. E dopo quanti anni si può parlare di ‘diritti della storia’? Bastano cinquant’anni, oppure no? Se ne discuta.
Ma non è questo il binario che vorrei percorrere. Perché lo scandalo maggiore, a mio parere, è che l’Unesco si sia prestata a passare questa risoluzione, che sarebbe farsesca se non fosse drammatica, su proposta di paesi (Algeria, Egitto, Libano, Marocco, Oman, Qatar e Sudan) che del problema fanno una questione politica, e non religiosa o culturale. E non si può dimenticare, allora, che Unesco significa United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization, ossia Organizzazione Educativa, Scientifica e Culturale delle Nazioni Unite. Non è, o non dovrebbe essere, un organo politico, non dovrebbe quindi usare un linguaggio politico per discutere i suoi argomenti, e dovrebbe affrontare argomenti culturali evitando di scendere in politica o, peggio, prendendo posizione in questioni meramente e delicatamente politiche. Cosa che non fa quando, per diciassette volte nella risoluzione, parla di “occupazione” da parte di Israele di una Palestina la cui esistenza, a ben vedere, non ha mai visto realizzazione come nazione se non sul piano geografico.
E se l’Unesco ha deciso di scendere abusivamente sul terreno politico, perché, allora, non ha parlato di terrorismo palestinese? E perché non ha invitato a riconoscere, oltre ai diritti dei palestinesi, anche il diritto all’esistenza di Israele, che ancora fatica a essere riconosciuto? E perché non ha chiesto che gli arabi della spianata riconoscano anche i diritti degli ebrei che desiderano recarvisi per pregare o per visitarla?
Tutte domande retoriche, naturalmente, che non hanno bisogno di risposta, perché la risposta la si conosce. La risoluzione è una colossale gaffe dell’Unesco, una presa di posizione squilibrata che solo l’acquiescenza alla demagogia dei paesi arabi ha potuto consentire. A questo punto, però, è l’UNESCO che non ha più diritto al riconoscimento in quanto organizzazione culturale.
Dario Calimani, Università Ca’ Foscari Venezia
(23 ottobre 2016)