Muri e muli

torino vercelliDispiace il doverlo dire ma a fare piangere non è un muro bensì la politica ostinata del mulo, con tutto il rispetto che si deve offrire al mammifero, fedele amico dell’uomo. Certo, si tratta di un conflitto politico sotto le spoglie di una guerra di nomi, che tuttavia cela una lotta per la legittimità nel controllo di luoghi dall’indiscutibile valore simbolico. Ma non solo questo. Molta parte del confronto israelo-palestinese, ovvero di ciò che nei fatti residua di esso, è innervato nella delegittimazione del nome altrui. Non si tratta di una semplice battaglia nominalistica, ovvero di forma, ma di una frizione permanente sul futuro di uno spazio obbligatoriamente condiviso o comunque coabitato. Non è un caso, al riguardo, se alla radice di uno dei grandi filoni del conflitto medesimo vi sia l’indisponibilità, pervicacemente ribadita da una parte del mondo arabo prima e ora musulmano, di superare il rifiuto dell’«entità sionista» accettando l’esistenza di Israele come nazione e come Stato tra gli altri Stati. Segnatamente, ciò di cui stiamo per parlare si inscrive a pieno titolo dentro questo capitolo “mainstream”, che si reitera con una sorta di inesorabile disposizione maniacale. Non di meno, la rinnovata centralità della questione delle terre si inscrive anche all’interno di percorsi e dinamiche che rinviano alle trasformazioni della composizione di una parte della popolazione israeliana, insieme alle politiche nei confronti dei territori dove gli insediamenti ebraici si sono diffusi in questi decenni. Dopo di che, qualunque sia la disposizione d’animo rispetto alle tante cose che si ripetono in quello scenario, la coazione a ripetere da parte di alcuni protagonisti internazionali, postisi ai margini del confronto ma in grado di orientare gli umori collettivi, è parte stessa del ripetersi del conflitto secondo un copione ossessivo e maniacale. A seguito del voto in Commissione, il Consiglio esecutivo dell’Unesco, composto da cinquantotto membri, ha infatti deliberato per l’approvazione e, quindi, l’adozione definitiva della risoluzione che obnubila e quindi cancella i rapporti storici, morali e spirituali con Har haBáyit e il Kotel. Va da sé che rispetto a quei luoghi vi sia anche una peculiare identità musulmana, trasformatasi a sua volta nel corso del tempo. Trattandosi, tuttavia, di un elemento sopravvenuto, non di una cornice assoluta e di principio, come invece simula la manifestazione di volontà dell’agenzia delle Nazioni Unite. Non di meno, il dispositivo della recentissima risoluzione intitolata alla «Palestina occupata», sottoposta all’approvazione da un consesso di Stati arabi, ossia l’Algeria, l’Egitto, il Libano, il Marocco, l’Oman, il Qatar e il Sudan, nel riaffermare «l’importanza della Città vecchia [the Old City] di Gerusalemme e dei suoi Muri [Walls] per le tre religioni monoteiste» si concentra poi integralmente nel deplorare «the failure of Israel, the occupying Power, to cease the persistent excavations and works in East Jerusalem particularly in and around the Old City, and reiterates its request to Israel, the occupying Power, to prohibit all such works in conformity with its obligations under the provisions of the relevant Unesco conventions, resolutions and decisions». Meglio lasciare il testo letterale, in inglese, alle considerazioni del lettore. Questo il quadro di riferimento (nel documento è classificato come «I.A Jerusalem»), quello per così dire di cornice ma anche fattuale, materiale, dentro il quale collocare poi la sostanza della comunicazione, presente al secondo punto («I.B Al-Aqsa Mosque/Al-Haram Al-Sharif and its surroundings»; secondo una disposizione filologica ed un nomenclazione correnti si sarebbe dovuto dire Al-Haram Al-Qudsi al-Sharif, «il nobile santuario di Gerusalemme»), a sua volta distinto in due articolati. Il primo di essi, I.B.1, chiede ad Israele più cose. Tra le altre, di ripristinare lo status quo ante settembre 2000, quando l’Awqaf giordano esercitava un «autorità esclusiva» su «Al-Aqsa Mosque/Al-Haram Al-Sharif»; condanna «escalating Israeli aggressions and illegal measures against the Awqaf Department and its personnel, and against the freedom of worship and Muslims’ access to their Holy Site»; deplora con fermezza «the continuous storming of Al-Aqsa Mosque/Al Haram Al-Sharif by Israeli right-wing extremists and uniformed forces»; condanna «the continuous Israeli aggressions against civilians including Islamic religious figures and priests, decurie the forceful entering into the different mosques and historic buildings inside Al-Aqsa Mosque/Al-Haram Al-Sharifby different Israeli employees including the so-called “Israeli Antiquities” officials, and arrests and injuries among Muslim worshippers and Jordanian Awqaf guards in Al-Aqsa Mosque/Al-Haram Al-Sharif by the Israeli forces, and urges Israel, the occupying Power, to end these aggressions and abuses which inflame the tension on the ground and between faiths». Seguono altre sollecitazioni, richieste, ingiunzioni. Il secondo articolato (I.B.2, «The Ascent to the Mughrabi Gate in Al-Aqsa Mosque/Al-Haram ash-Sharif», la prima già fatta oggetto di precedenti deliberazioni Unesco), riafferma che «the Mughrabi Ascent is an integral and inseparable part of Al-Aqsa Mosque/Al-Haram Al-Sharif» e depreca «the continuing Israeli unilateral measures and decisions regarding the Ascent to the Mughrabi Gated», insieme ad una serie di ulteriori rimandi e richiami sull’unilateralità delle condotte israeliane. Una successiva parte del documento è dedicata alla «ricostruzione e allo sviluppo di Gaza» mentre una terza, conclusiva, rinvia ai «due siti palestinesi di Al-Haram Al-Ibrahimi/Tomba dei Patriarchi in Al-Khalil a Hebron e la Moschea di Bilal Ibn Rabah/Tomba di Rachele a Betlemme». Si tratta di un testo che parrebbe incentrarsi essenzialmente sullo status di Gerusalemme, ovvero sulla sua parte orientale, ma che ha come suo autentico fuoco la riformulazione di un giudizio sul confronto israelo-palestinese, concatenando tre realtà diverse. Il documento, il cui oggetto di preoccupazione apparente parrebbe quindi essere, per un lettore non avveduto, quello di conservare il valore plurireligioso e multiculturale dei siti, è in realtà una durissima presa di posizione non solo contro le scelte dei governi israeliani ma anche e soprattutto contro la stessa presenza storica dell’ebraismo nel corso del tempo. Poiché nel ricorrere esclusivamente alla denominazione araba, di fatto cancella qualsiasi traccia pregressa (e susseguente) di ebraicità dei luoghi. Lo fa peraltro fingendo un rimando peloso e di circostanza al pluralismo, rafforzato dalla condanna nei confronti degli «atti unilaterali» posti in essere dalle autorità israeliane. Il vero oggetto della risoluzione Unesco non sta in ciò che viene detto ma nel modo in cui lo si fa. Ovvero, nel rimando all’esclusività musulmana su quei luoghi. Per meglio dire, alla sua unicità. Se su un concreto piano materiale, quindi, non muta più di tanto lo stato delle cose, semmai accentuando la frattura già sussistente tra Israele ed Unesco, in prospettiva invece sancisce, facendo propria la battaglia sui nomi nel loro concorrere a definire la natura delle cose, che un terreno di intesa non potrà mai esserci. La pretestuosità dei richiami alle «tradizioni monoteiste», peraltro, risulta ancora più rafforzata dagli imbarazzati rimandi in merito da parte della presidente dell’Unesco, Irina Bokova, in un tentativo tanto fragile quanto impotente di rendere un po’ più digeribile un documento politico che rilancia il muro contro muro. Ancora una volta, tralasciando l’oggetto apparente del testo (la tutela degli interessi palestinesi), è quindi nel dispositivo linguistico che si coglie il disegno sotteso, quando una parte, quella ebraica, scompare completamente e l’altra, invece, nella esclusiva dimensione di vittima, viene presentata come l’unica, autentica, esclusiva, definitiva depositaria del processo storico che invece attraversa millenni di storia di quei luoghi con una pluralità di protagonisti.

Claudio Vercelli

(23 ottobre 2016)