Primo Levi, chi sono i tedeschi
Primo Levi e i tedeschi sono i due soggetti dell’ultima Lezione Primo Levi. Sull’esistenza storica del primo e sulla sua persistenza come scrittore, non restano dubbi. Affrontare il secondo crea invece problemi, e non pochi. “I tedeschi” non esistono, potrebbe essere la prima obiezione. Non con l’articolo determinativo, non al plurale. Esiste il tedesco, che è una lingua, e un tedesco, che è un cittadino della Germania. Accostati al nome di Primo Levi, poi, “i tedeschi” sembra un monolite inaccettabile: semmai, si potrebbe ribattere, esistono, o meglio, sono esistiti, “quei tedeschi”, quelli che concorsero alla creazione e al perpetuarsi del nazionalsocialismo, del sistema concentrazionario, dello sterminio degli ebrei; quelli che lo appoggiarono; quelli che non lo denunciarono; quelli che non vollero vedere. Eppure “i tedeschi” sono senz’altro fra i protagonisti di Se questo è un uomo, dove l’espressione (proprio con l’articolo determinativo) compare più di trenta volte. “I tedeschi” è il soggetto della prima frase de La tregua: “Nei primi giorni del gennaio 1945, sotto la spinta dell’Armata Rossa ormai vicina, i tedeschi avevano evacuato in tutta fretta il bacino minerario slesiano”. In effetti, almeno fino al 1945, “i tedeschi” sono il popolo leader di uno dei due schieramenti in una guerra mondiale; in Italia, sono prima l’alleato, poi il nemico in casa; sono il popolo di Adolf Hitler che vuole sterminare un altro popolo: quello ebraico: gli ebrei. Fino al 1945 «i tedeschi» esistono. Ma dopo?
A pensarci, non sono solo i due soggetti/oggetti del titolo a creare un problema, ma anche la congiunzione interposta: “Primo Levi e i tedeschi”. Tutta la produzione di Levi come scrittore si è compiuta dopo il 1945; il successo di Se questo è un uomo è arrivato tredici anni dopo, nel 1958, per non parlare dei restanti libri. Erano ancora gli stessi, “i tedeschi”? Da cosa erano uniti, più di un decennio dopo la liberazione di Auschwitz, Primo Levi e i tedeschi? Che cosa li legava nel 1976 quando, nell’Appendice all’edizione scolastica di Se questo è un uomo, Levi dedicava ai tedeschi ben quattro delle otto frequently asked questions degli studenti che regolarmente incontrava? Mi sono convinta che per venire a capo di questi interrogativi esista una sola via da percorrere, quella della cronologia e della storia dei testi. Si può dire “i tedeschi” solo se si ha la pazienza di collocare di volta in volta questo soggetto nel suo punto di appartenenza rispetto alla storia politica europea, a quella italiana, alla storia personale di Levi e alla sua vicenda di scrittore. Nella prima pagina dei quattro libri più importanti di Levi (di Se questo è un uomo, de La tregua, de Il sistema periodico, de I sommersi e i salvati) compare una data; in Se non ora, quando? (romanzo d’invenzione), il titolo di ciascun capitolo è una data; e ogni singola poesia di Levi ha in calce la data precisa della sua composizione. Levi, insomma, ci ha lasciato più di un segno di quanto per lui la cronologia fosse cruciale: perché ogni affermazione potesse mantenere un senso nel futuro era importante collocarla in un punto preciso del passato e del presente. Senza dubbio, una data cruciale per il rapporto tra Primo Levi e i tedeschi è il 1959: anno in cui l’editore Fischer Verlag con sede a Francoforte acquista i diritti per tradurre e pubblicare Se questo è un uomo, e affida la traduzione a Heinz Riedt; con lui Levi avvierà un intenso scambio epistolare e una sincera amicizia. È la vicenda raccontata nell’ultimo capitolo de I sommersi e i salvati, “Lettere di tedeschi”: da cui apprendiamo anche che dal 1961, anno in cui Ist das ein Mensch? uscì in Germania Ovest, Levi cominciò a ricevere molte lettere dai lettori tedeschi. Dal 1961 in poi, “i tedeschi” sono anche suoi lettori. Levi scrive il capitolo “Lettere di tedeschi” alla metà degli anni ottanta. È un uomo di sessantacinque anni che ripensa e rilegge il Levi quarantenne, l’autore ancora quasi debuttante, e debuttante assoluto in Germania, che scriveva lettere indirizzate a Brema, Francoforte, Heidelberg, Wiesbaden: “i tedeschi” degli anni Ottanta sono “tedeschi” degli anni Sessanta osservati con lo sguardo retrospettivo di vent’anni dopo. Nel frattempo, Levi ha preso contatto anche con intellettuali tedeschi, grazie ai quali ha approfondito la conoscenza della loro letteratura moderna e contemporanea; ha conosciuto Hermann Langbein e ha letto Menschen in Auschwitz; ha incontrato un tedesco dell’”altra parte”, conosciuto vent’anni prima a Auschwitz; ha anche provato con tutti i mezzi a far tradurre Se questo è un uomo nella DDR, senza riuscirci; ha invece tradotto lui stesso Il processo di Kafka; negli ultimi anni della sua vita è diventato uno scrittore apprezzato in tutto il mondo.
I fatti che ho elencato finora sono una banale constatazione della storicità di Primo Levi (uomo, testimone, scrittore: ammesso che queste dimensioni si possano tenere separate). Rileggendo con attenzione le opere di Levi, appare evidente che gli anni sessanta costituiscono il varco d’ingresso per esplorare il rapporto con i tedeschi. La sfida è provare a farlo senza lasciarsi condizionare da quanto Levi scriverà dopo, tornando cioè alle sue corrispondenze tedesche per come effettivamente si svolsero, e ricostruendole entro il clima politico di quegli anni, per poi successivamente vagliare lo scarto tra i fatti – appunto: come si svolsero nella realtà – e il racconto che Levi ne fece per iscritto più tardi. È uno degli obiettivi che mi sono posta per questa Ottava Lezione Primo Levi, che si terrà a Torino il 26 ottobre. Dal 1967 Levi corrispose con Hety Schmitt-Maass, una sua coetanea di Wiesbaden, bibliotecaria e giornalista, più tardi ministro della cultura dell’Hessen. Su richiesta di Levi, Schmitt-Maass lo mise in contatto con il suo capo-laboratorio alla fabbrica di Buna di Auschwitz, il dottor Ferdinand Meyer. Lo studio dei carteggi permette oggi di ricostruire questa vicenda per come avvenne; solo conoscendola, in tutti i suoi particolari, nella sua oscillazione tra entusiasmo, ritegno, slancio, riserbo, vergogna, perturbamento, è possibile metterla in relazione con il racconto Vanadio del Sistema periodico, dove Levi ne compie una magistrale trasfigurazione letteraria. È più “tedesco” Ferdinand Meyer oppure il suo alter-ego letterario, l’ingegner Lothar Müller di Vanadio? Sono domande provocatorie, tuttavia non sono domande vane; le risposte possibili si dispongono su più livelli. La conoscenza dei documenti e delle carte d’archivio di certo non esaurisce lo studio di uno scrittore – specie se è uno scrittore di libri diventati classici; sono i suoi testi a parlarci. Eppure, tutto quello che emerge dallo studio dei carteggi – incontri, scambi, progetti editoriali, tensioni e amicizie – spiega, arricchisce, rende complessa la presenza letteraria continua, oscillatoria, ambigua e irrisolta dell’entità “i tedeschi” nell’opera di Levi. Si scopre che “i tedeschi” sono concretamente plurali: il contrario di un blocco sintattico monolitico. Può darsi che d’ora in poi un biografo che voglia ricostruire la vita di Primo Levi non si possa più avvalere di Vanadio come prova documentaria, come uno stralcio di realtà vissuta. Il comparatista che voglia studiare le versioni poetiche leviane dei testi di Heinrich Heine dovrà probabilmente tenere da conto dello svolgersi delle sue relazioni coi tedeschi, per spiegare alcune scelte “più musicali che filologiche” (sono parole sue) di questo singolare traduttore. Lo storico, il teorico, il critico che voglia ricostruire la genesi de I sommersi e i salvati avrà l’opportunità di cominciare il suo lavoro proprio dalla fine del libro, da quelle lettere di lettori tedeschi in cui già si discuteva – nei primi anni sessanta – di vergogna, e si prendevano contatti con Jean Améry, e si esplorava la comunicazione nei Lager. In Se questo è un uomo, Levi si descrive al cospetto del tedesco per antonomasia che compendia tutti i tedeschi: il dottor Pannwitz, che “siede formidabilmente” dietro la sua “complicata scrivania”. Sta per cominciare l’esame di chimica che gli può valere la sopravvivenza, e Levi dà voce al giudizio, sommario e inevitabile, su tutto un popolo: “Quello che tutti noi dei tedeschi pensavamo e dicevamo si percepì in quel momento in modo immediato. […]” “Gli occhi azzurri e i capelli biondi sono intrinsecamente malvagi. Nessuna comunicazione possibile”. Oggi sappiamo che, più tardi e altrove, lontano da Auschwitz, la comunicazione poté riprendere, e riservò sorprese. Per fortuna di Primo Levi, e dei suoi lettori, la storia con “i tedeschi” non si bloccò ai due lati di quella “complicata scrivania”.
Martina Mengoni
Pagine Ebraiche, ottobre 2016
(26 ottobre 2016)