Il libro di Walter Arbib a Roma
“Per aiutare ci vuole coraggio”
(ed. Malcom Lester), avvincente biografia che il giornalista israeliano Yossi Melman ha dedicato all’imprenditore tripolino Walter Arbib (nell’immagine). Un libro tutto da scoprire, protagonista questa sera di un evento molto atteso in città.
Scrive Simonetta Della Seta su Pagine Ebraiche di novembre, tratteggiando una biografia di Arbib: “Lavora per gli Stati Uniti, per l’Italia, per Israele. Lo Stato ebraico gli affida missioni nei Paesi arabi, con i palestinesi. Dove non arriva l’esercito, giunge in soccorso Arbib. Nel 2011 è in Israele che Walter festeggia i suoi settanta anni, circondato da autorità e vip di ogni genere. Eppure lui non perde la consapevolezza delle sue origini. Aiuta la comunità degli ebrei libici in Israele (finanziando il museo di Or Yehuda) e in Italia (finanziando la sala degli ebrei libici al museo ebraico di Roma). In Israele fa nascere una foresta a nome di Giorgio Perlasca, il Giusto italiano tra le Nazioni più noto anche all’estero. Walter è instancabile. Quando in Canada fa freddo, si ritira con la famiglia nella casa ai Caraibi. Quando ha voglia, torna nella sua amata Roma. Con la Libia, mantiene un conto aperto. Chissà di quali sorprese è ancora capace”.
Per aiutare ci vuole coraggio
“Il grande poeta ebraico Shaul Tchernichovsky ha scritto che l’uomo riflette il paesaggio del suo Paese. Walter Arbib è composto da paesaggi multipli. Lo hanno formato il deserto libico e la vita in mezzo agli arabi, la cultura dell’Italia con la sua cucina, le sue belle donne, le sue mode eleganti e la sua gioia di vivere. Ma egli è anche il prodotto di Israele, con la sua faccia tosta, i rumori, le tensioni legate alla sicurezza, il contrasto tra le spiagge di Tel Aviv e la santità di Gerusalemme. Il triangolo Libia-Israele-Italia ne ha fatto un uomo del Mediterraneo. Infine, in Canada, è diventato da niente un uomo d’affari di successo. Ha sempre saputo come costruire se stesso da zero. È come un abile ginnasta: non importa da quanto lontano cada, atterra sempre sui suoi piedi. Nel suo modo inimitabile, Walter Arbib è un poco di tutto. Ma soprattutto è unico. Ed è se stesso”. Con questo efficace ritratto, Yossi Melman conclude il libro dedicato a Walter Arbib dal titolo: Don’t Shoot! I’m the Good Guy – The Life and the Times of Walter Arbib (“Non sparate! Sono quello buono! La vita e i tempi di Walter Arbib”, ed. Malcom Lester, Canada, 2016). Melman, giornalista di fama internazionale, copre da molti anni per il quotidiano israeliano Haaretz questioni di intelligence, strategia e sicurezza. È anche autore di alcuni best seller sui servizi segreti israeliani. Non meraviglia che sia l’autore di questa biografia. Come lui stesso spiega nell’introduzione al libro, si è imbattuto nel nome di Arbib circa cinque anni fa, quando cercava di prendere contatti con la Libia del dopo Gheddafi. “Ho capito subito che la storia di Walter meritava di essere scritta”, afferma Melman, al quale mi piacerebbe chiedere come sia stato lavorare al libro con Walter. Quest’ultimo, regalandomelo, ha sottolineato che “andava scritto per tutti i figli e i nipoti”. Il libro, non a caso, è corredato di foto, documenti, alberi genealogici e perfino dei modelli di auto posseduti da Arbib. Ho conosciuto Walter quando lavoravo per il Ministero degli Esteri. I nostri ministri lo trattavano con grande rispetto ed era chiaro a tutti noi che questo signore, che ogni tanto visitava Israele, aveva aiutato l’Italia, e le nostre istituzioni, in operazioni “impossibili”. Non è un caso che la premessa al libro porti la firma di Antonio Martino, Ministro degli Esteri e poi della Difesa, tra metà anni Novanta e metà primo decennio di questo secolo. Nella sua presentazione Martino nomina alcune di queste imprese, dalla restituzione dell’obelisco di Axum all’Etiopia, alla liberazione delle due Simone in Iraq. In una intervista di Melman a Maurizio Scelli, allora capo della Croce Rossa italiana, riportata nel capitolo 20 del libro, impariamo ancora di più su questi ed altri episodi. “Ho avuto con Scelli una collaborazione straordinaria”, mi dice Walter, “si sarebbe meritato di più dall’Italia”.
Per me, Walter è anche il fratellino piccolo di Jack, un grande amico che vive a Giaffa. Il fratello “birichino”, diventato famoso. Ma basta guardare gli occhi dei due quando si ritrovano per capire quanto si vogliano bene e quanto il libro sia concepito per far onore anche a un lungo e ricco retaggio comune, quello che risale alla loro infanzia a Tripoli, negli anni che precedettero i pogrom arabi e la fuga forzata dalla Libia dopo la guerra dei Sei Giorni del 1967. Anni in cui il giovane Walter, il più ribelle dei due, aveva già fatto più volte su e giù con l’Italia, per studiare in un collegio e, più tardi, mentre il fratello Jack studiava ingegneria a Milano, per cercare fortuna nella Roma della dolce vita. Lì Walter creò la sua rete di primi contatti italiani, che gli sarebbero stati cruciali, una volta atterrato a Roma con la madre Yolanda e solamente due valigie. Walter entra in un giro di affitto auto ai VIP, un’esperienza che si porta dietro a Tel Aviv, dove si trasferisce con la madre negli anni Settanta, per raggiungere Jack. Tramite il lavoro incontra una stupenda e giovane ragazza ebrea canadese, venuta a trovare la sorella. Per Eddie è colpo di fulmine. È diversa da tutte le tante altre donne che aveva incontrato e di cui si era infatuato. Con Eddie, che sposa nel 1975, Walter cresce come famiglia – nascono Stephen e Dana – e come lavoro. Qui la sua creatività, la faccia tosta e la capacità di non arrendersi mai, lo portano, dopo la visita dell’egiziano Anwar Sadat in Israele, ad aprire i primi canali di turismo tra Israele ed Egitto – via mare, via terra e via aria – prima ancora che ci fossero i permessi. Per crescere definitivamente da un punto di vista economico, la famiglia si sposta infine in Canada, la patria d’origine di Eddie, figlia di due sopravvissuti alla Shoah. Qui Walter, grazie a un contatto passatogli dal socio egiziano, incontra Surjit, un Sikh con il quale è ancora socio nella Skylink.
Con la Skylink Walter comincia ad offrire servizi speciali all’Onu, in Rwanda, in Somalia, in zone di guerra dove porta medicine, beni alimentari e perfino uomini. I piloti della Skylink vengono dall’ex Unione Sovietica, non hanno paura di niente. Anche gli aeromobili sono stati acquistati sullo stesso mercato, sono solidi e anche agili. Il lavoro con le Nazioni Unite va avanti senza problemi fino all’ascesa di Boutros Boutros Ghali, Ministro degli Esteri egiziano, alla carica di Segretario Generale Onu. È lui che copre l’azienda canadese di pesanti sospetti. Walter impegnerà diversi anni e i migliori avvocati di New York per uscire da questo cono d’ombra. Ma anche qui non si arrende. Lavora per gli Stati Uniti, per l’Italia, per Israele. Lo Stato ebraico gli affida missioni nei Paesi arabi, con i palestinesi. Dove non arriva l’esercito, giunge in soccorso Arbib. Nel 2011 è in Israele che Walter festeggia i suoi settanta anni, circondato da autorità e vip di ogni genere. Eppure lui non perde la consapevolezza delle sue origini. Aiuta la comunità degli ebrei libici in Israele (finanziando il museo di Or Yehuda) e in Italia (finanziando la sala degli ebrei libici al museo ebraico di Roma). In Israele fa nascere una foresta a nome di Giorgio Perlasca, il Giusto italiano tra le Nazioni più noto anche all’estero. Walter è instancabile. Quando in Canada fa freddo, si ritira con la famiglia nella casa ai Caraibi. Quando ha voglia, torna nella sua amata Roma. Con la Libia, mantiene un conto aperto. Chissà di quali sorprese è ancora capace. Il brindisi ebraico “alla vita!” lo calza perfettamente. Dunque: Le’Chaim Walter! a te, alla tua famiglia, e a tutta la famiglia allargata che sai servire con astuzia, intraprendenza, passione e generosità. Che tu possa farlo ancora, almeno fino a centoventi anni!
Simonetta Della Seta, Pagine Ebraiche novembre 2016
(27 ottobre 2016)