LINGUAGGI Parole, accenti, intonazioni: i mille volti dell’ebraico-americano

vetrina-yiddish-inglese-1905-by-berenice-abbottBalle Spaziali, il film che Mel Brooks ha diretto e interpretato nel 1987, è una parodia di Guerre Stellari, così come di molte altre serie di fantascienza, da Star Trek a Alien, al Pianeta delle Scimmie. È un film irresistibile, ricco di un umorismo molto più sottile di quanto le battute grevi del doppiaggio italiano potrebbero far pensare, e non smette di sorprendere per la ricchezza di citazioni e riferimenti e per le sue sfacciate prese in giro. Non risparmia nessuno, Mel Brooks, e nelle avventure della Principessa Vespa e di Stella Solitaria compaiono tutti, da Kafka a Asimov, da 2001 Odissea nello spazio a Kubrik. Non mancano neppure i riferimenti a Clark Gable, così come alla catena americana Pizza Hut, all’Air Force One – l’aereo del presidente degli Stati Uniti – o a serie come Scuola di Polizia. Senza ovviamente dimenticare la Guida galattica per autostoppisti.
Ma per gli studiosi di linguistica è un’altra la ragione che rende Balle spaziali un film importante: Mel Brooks, quando interpreta Yogurt (la parodia di Yoda in Guerre Stellari) pronuncia una frase che è diventata riferimento e quasi un simbolo di coloro che si occupano delle varianti ebraiche dell’inglese. Dell’americano, per la precisione. Non si tratta delle più note occorrenze linguistiche che mescolano radici di vocaboli yiddish e talvolta ebraici all’inglese, spesso diventate di uso comune, ma di varianti fonetiche, di sonorità che sono caratteristiche di madrelingua inglesi, nati in America. Ma con radici ebraiche. In quattro parole, “You heard of me?”, sono concentrate le caratteristiche più notevoli di quello che si configura come un mondo a sé stante: l’accento newyorkese, un poco datato, trasforma la parola “heard” in “hoid” – tecnicamente si tratta del “coil-curl merger, una caratteristica tipica dei newyorkesi nati prima della Seconda guerra mondiale – e l’intonazione della domanda è totalmente diversa da qualsiasi variante tipica dell’americano. L’intonazione e l’enfasi della frase semplicemente non hanno alcuna somiglianza con quello che direbbe un non ebreo: l’enfasi è tutta su “heard”, per poi calare su “of”, e risalire leggermente sulla finale, “me”.
Gli studiosi spiegano che sì, in effetti esiste un “americano ebraico” (Jewish American), ma si può dire che ha radici etniche, o addirittura religiose? Possiamo davvero parlare di “accento ebraico” così come si parla, per esempio, di un “accento newyorkese”? Parrebbe di sì ma – ovviamente – è faccenda complicata: lo studio dell’intonazione è per molto tempo stata messo da parte dagli studiosi in conseguenza del dibattito sull’opportunità o meno di considerarla davvero parte del sistema linguistico. È solo da una quindicina d’anni che alcuni linguisti (non tutti… ovviamente) hanno iniziato a studiare sistematicamente la cadenza delle parole: il ritmo, ossia quell’insieme di timbro, intonazione, accenti e pause del parlare che sono state per lungo tempo oggetto di dibattito, è ora studiato in maniera organica. Siamo ancora solo all’inizio della ricerca, ma ci sono alcuni gruppi che sono diventati oggetto di studi particolarmente interessanti, nonostante in inglese il ruolo della melodia sia meno marcato rispetto ad altre lingue. E ci sono due gruppi particolarmente rilevanti: l’inglese degli Appalachi è uno. L’altro è l’americano ebraico.
Il primo problema è la definizione di cosa si possa chiamare Jewish English: gli ebrei, sparsi per il mondo, hanno vissuto in migliaia di culture e accenti, per cui l'”assortimento” americano, se così si può chiamare, non può essere rappresentativo di un gruppo. Chi viene dal mondo arabo non può avere lo stesso modo di parlare di un ashkenazita, che con l’israeliano avrà a sua volta davvero pochissimo in comune. probabilmente neppure il linguaggio di partenza, che potrebbe essere ladino, yiddish o ebraico. Ma l’argomento che sta appassionando gli studiosi, e di cui si è occupata recentemente Sarah Bunin Benor, studiosa allo Hebrew Union College di Los Angeles: si tratta di quello specifico gruppo che nell’immaginazione popolare è ormai da tempo rappresentativo dell’intero ebraismo americano. Le più consistenti ondate di immigrazione ebraica, arrivate negli Stati Uniti tra il 1880 e il 1920 in fuga dai pogrom russi, polacchi, lituani e ucraini, si sono installate prevalentemente a New York. Anche oggi la sproporzione è evidente: in città sono residenti circa 2,1 milioni di ebrei, una cifra che corrisponde a più di tre volte la popolazione ebraica di Los Angeles, dove risiede la seconda comunità ebraica americana. A New York ci sono più ebrei che in qualsiasi altro luogo al mondo, tranne Tel Aviv, e la lingua parlata dall’ondata migratoria di quegli anni era lo yiddish. A partire dagli anni Trenta dello scorso secolo attori come Henny Youngman, Zero Mostel, Jerry Lewis, Mel Blanc, e Sid Caesar divennero le star di quello che veniva chiamato addirittura “Borscht Belt” . È molto grazie a loro, e ancor di più grazie alla generazione seguente – Mel Brooks, Woody Allen, Rodney Dangerfield, George Burns, Don Rickles – che in America, e poi nel mondo intero si è formata un’idea di come parlano gli ebrei americani. Tutti, è importante sottolinearlo, nati in America, tutte persone per cui l’inglese era la prima lingua, ma le cui radici e la cui comunità hanno avuto un’influenza forte, a partire dal modo di parlare.
Molto forte anche il ruolo dell’accento più generalmente newyorkese, che ha alcune particolarità molto riconoscibili, come il modo di pronunciare le “o” con la lingua posta in posizione più bassa di quanto faccia la maggioranza degli americani – si trasformano “ah”, ottenendo hahrrible invece che horrible, Flahrida invece di Florida. Queste caratteristiche, insieme ad altre varianti che travalicano i confini regionali, sono state assorbite in maniera più forte della media dalla popolazione ebraica, cosicché anche gli ebrei che non sono di New York, o i cui genitori non sono di New York avranno tracce di un accento tipicamente newyorkese.
Ma non è solo questo: oltre all’ovvia propensione ad usare parole yiddish o ebraiche in maniera più consistente rispetto al resto della popolazione americana in cui, comunque, il linguaggio abituale ne contiene parecchie (specialmente in ambito alimentare, oltre a klutz, schpiel o maven si pensi a bagel, pastrami, challah) è frequente l’abitudine di aggiungere il suono “schm” all’inizio delle parole, ripetendole, giocandoci, per cui per esempio “money” diventa “money schmoney” o “art” si trasforma in “art schmart.” Oltre alle sonorità, è anche la struttura grammaticale dello yiddish ad influenzare il linguaggio: normalmente in inglese il predicato non può essere collocato davanti al verbo, ma in yiddish non si direbbe “I want pizza”, bensì Pizza I want”. Questa variante passa nell’inglese, ottenendo una lingua che – per tornare all’inizio del discorso – suona esattamente come quella che caratterizza Yoda in Guerre stellari. E Yogurt in Balle spaziali, in maniera ancora più ovvia. Un’altra espressione tipica è “enough already”, tanto comune quanto strana. È meno strana se si pensa che è la traduzione diretta di “genug shoyn”, in yiddish, ovviamente. Lo “yeshivish”, come è chiamato l’inglese delle comunità più osservanti, in qualche modo mutuato dalla lingua usata nelle scuole religiose, le yeshivot, ha caratteristiche ancora più distintive, che spesso sono traduzioni dirette dallo yiddish, o derivano dalle sue strutture linguistiche. Anche dal punto di vista sonoro esiste una caratteristica molto comune e riconoscibile dello yeshivish, che si chiama “hesitation click”: un suono che, se pronunciato a metà frase significa che chi parla sta in qualche modo “rivedendo” quanto detto sino a quel momento. Arriva dall’ebraico israeliano, pieno di suoni simili. Ma la caratteristica che rende lo “yeshivish” davvero particolare rientra nell’ambito dell’intonazione: le ricerche mostrano che gli ebrei usano una varietà di picchi e una gamma di intonazioni molto più ampia rispetto ai non ebrei. Una variabilità misurabile, che rende il linguaggio molto “musicale”, quasi cantato. I suoi alti e bassi hanno molto a che fare con le modalità di studio del Talmud, in cui sono loro a indicare virgole e punti, in assenza di punteggiatura scritta.
E alcuni elementi si sono trasferiti anche nell’intonazione degli ebrei secolari, che mantiene una musicalità particolare, e riconoscibile, e arriva a modificare il senso delle frasi, che non possono più essere interpretate solo letteralmente, o per lo meno non solo letteralmente. E non è solo Mel Brooks. Particolarmente marcata quando un attore o un comico vuole sottolineare l’ebraicità del suo personaggio, è in realtà una caratteristica “naturalmente” ebraica. Diffusissima a Broadway. Ma, di nuovo, non solo. Nonostante siano caratteristiche che tendono a sparire o a diventare meno evidenti col tempo – sono meno marcate in chi è nato dopo gli anni Cinquanta, per esempio – restano la musicalità, l’accento newyorkese, l’uso molto peculiare di alcune parole e/o strutture yiddish, che in alcuni casi stanno addirittura ritornando (si pensi a “shul”, per esempio, che è parola molto più comune ora di quanto lo fosse vent’anni fa). Immutabile invece il modo ebraico di conversare: non è solo la caratteristica delle pause all’interno delle frasi, più corte e meno frequenti. Interrompersi l’un l’altro, intrecciare più discorsi, discutere, sovrapporre un voce all’altra senza aspettare il proprio turno per parlare… non è maleducazione, è “cooperative overlapping”. 

Ada Treves