Qui Torino – I tedeschi per Primo Levi
La Lezione Primo Levi giunge quest’anno alla sua ottava edizione, che sommata alle precedenti dà la percezione di quanto il mondo letterario e biografico di Levi assomigli sempre più a “un continente da scoprire che si fa via via che lo si studia sempre più vasto e ricco di territori ancora inesplorati”. Così Ernesto Ferrero, presidente del Centro Internazionale di Studi Primo Levi, sintetizza con una metafora l’avvincente e complesso mondo della ricerca che sta dietro alla preparazione di ogni Lezione. Quest’anno il tema scelto è il rapporto tra Primo Levi e i tedeschi. A guidare il pubblico in questo terreno ambiguo e scivoloso, ma allo stesso tempo stimolante proprio perché nuovo, è la studiosa Martina Mengoni, filosofa e dottoranda in Letteratura Italiana presso la Scuola Normale Superiore di Pisa con un progetto di ricerca su I sommersi e i salvati. Autrice di alcuni saggi su Levi, tra cui Variazioni Rumkowski, 2011; Doktor Primo Levi, 2014; Gli autoritratti periodici di Primo Levi, 2015) e ha pubblicato l’edizione del carteggio tra Primo Levi e Claude Lévi-Strauss (2015). “Le Lezioni di Primo Levi – spiega Fabio Levi, direttore del Centro Internazionale Primo Levi – rientrano in un più ampio programma di iniziative di cui il Centro si fa promotore, che ha come obiettivo la ricerca costante di nuovi pubblici e di nuovi collaboratori”. Come ogni anno, il testo della Lezione sarà successivamente pubblicato da Einaudi e presentato al Salone del Libro la prossima primavera.
Punto di partenza dell’analisi del tema “Primo Levi e i tedeschi”, è ancora una volta Se questo è un uomo, o meglio il suo titolo, che cela una doppia domanda retorica: quale vittima dei campi può considerarsi ancora un uomo? E, quale carnefice può ancora essere degno di appartenere alla specie umana? Altro nodo dell’analisi è rappresentato dall’ultimo capitolo de I sommersi e salvati dal titolo Lettere di tedeschi. “Ma quali sono i tedeschi che si rapportano con Levi? Cosa intendiamo con questo sostantivo al plurale?”, si chiede la relatrice. “È l’aguzzino o colui che sapeva ma che ha taciuto? E poi come si è configurato il rapporto di Levi con le nuove generazioni tedesche nate dopo la Guerra?”. Queste le domande che hanno mosso l’attività di ricerca di Mengoni, domande che trovano una risposta in un’attenta analisi dei carteggi che lo scrittore torinese ha intrattenuto con diversi personaggi, ciascuno a rappresentare una tipologia diversa di tedesco.
Primo carteggio, quello tra Levi e Heinz Riedt, il linguista che curerà la traduzione di Se questo è un uomo in tedesco, Ist das ein Mensch?, pubblicata nel 1961, anno da considerarsi snodo fondamentale che dà il via a una potenziale riflessione da parte dello scrittore. Capire i tedeschi è per Levi una necessità morale, un pungolo per l’immaginazione. Riedt rappresenta a tutti gli effetti il primo tedesco con cui Levi si rapporta dopo la guerra e che legge la sua opera-testimonianza. “Il carteggio tra i due si trasforma in un percorso di autocoscienza, che si conclude con la complessa operazione di portare Se questo è un uomo dalla lingua in cui è stato scritto a quella in cui era stato vissuto”, spiega Mengoni.
Altri scambi epistolari analizzati sono quelli tra Levi e alcuni giovani nati e cresciuti in Germania ma lontano dallo scempio della Shoah e della guerra. “È proprio la lettera che aspettavo di ricevere perché è giovane e perché è tedesco”, questa la risposta di Primo Levi a uno dei giovani interlocutori, che rappresentano una porta aperta sui tedeschi della generazione precedente e sul passato.
Molto significative anche le lettere che Levi e Hety Schmitt-Maas si scrissero. Hety ricoprirà un ruolo significativo: far circolare non solo tra gli “innocenti che si pentono del passato”, ma ai colpevoli che davanti alla storia a loro più prossima chiudono gli occhi. “Penso – scrive Levi a Hety – che i tedeschi coscienti, piuttosto che abbandonarsi ad uno sterile senso di colpa, dovrebbero operare in tutti i modi che sono loro consentiti […] affinché quanto è stato commesso non venga dimenticato”.
Altro carteggio, quello con Ferdinand Meyer, tecnico civile che lavorò con lui nel laboratorio alla Buna. Levi scrive in risposta a Meyer: “Non le nascondo che le scrivo con esitazione proprio perché è la prima volta che mi accade come al termine di una partita a scacchi), di essere in comunicazione con qualcuno che si trovava dall’altra parte della barriera, anche se contro voglia, come credo fosse il suo caso”. Meyer era un civile e questa è una distinzione fondamentale per Levi che lo definisce “un uomo rimasto indenne dal germe nazista”.
Quello che emerge è un carteggio a più voci tramite cui si ricostruisce il percorso che Levi fece per approcciarsi ai tedeschi, i molti tedeschi.
Il percorso di analisi del rapporto di Levi con i tedeschi termina in Vanadio dove, anche se l’invenzione letteraria prende il sopravvento sulla realtà, si può ricostruire l’incontro con Müller: “Ritrovarmi, da uomo a uomo, a fare i conti con uno degli “altri” era stato il mio desiderio più vivo e permanente del dopo-Lager. Era stato soddisfatto solo in parte dalle lettere dei miei lettori tedeschi: non mi accontentavano, quelle oneste e generiche dichiarazioni di pentimento e di solidarietà da parte di gente mai vista, di cui non conoscevo l’altra facciata, e che probabilmente non era implicata se non sentimentalmente. L’incontro che io aspettavo, con tanta intensità da sognarlo di notte, era un incontro con uno di quelli di laggiù, che avevano disposto di noi, che non ci avevano guardati negli occhi, come se noi non avessimo avuto occhi. Non per fare vendetta: non sono un Conte di Montecristo. Solo per ristabilire le misure, e per dire “dunque?”. Se questo Müller era il mio Müller, non era l’antagonista perfetto […] ma, come è noto, la perfezione è delle vicende che si raccontano, non di quelle che si vivono”.
Alice Fubini
(27 ottobre 2016)