La demenza e la senescenza
Sarà anche vero che la madre dei cretini è sempre incinta (smentendo il trend socio-demografico che si accompagna all’evoluzione e alla trasformazione in atto in Europa e, soprattutto, in quella mediterranea, dove invece si procrea di meno) ma rimane il fatto che certi cretini possano vantare quasi sempre una genitrice particolarmente proclive a rigenerarsi attraverso la prole. Mille volte si è parlato di “demenza digitale” così come di speech hate, in queste ed anche in altre pagine, in questo come in altri portali e, per non farsi mancare nulla, in oramai numerosissimi libri. Se ne sono occupati sociologici, psicologi, professionisti della comunicazione e quant’altri. Peraltro, nei lunghi corridoi del nostro Parlamento, una proposta di legge sul cyber-bullismo sta facendo il suo transito navetta, in attesa di essere definitivamente licenziata. Tanto per dire quanto lo spostamento di rilevanza del confronto incivile, si sia verificato in questi ultimi anni dai luoghi reali alle piazze virtuali. Rafforzando, molto spesso, la già diffusa propensione prevaricatoria. Dopo di che, parlare di Israele e del conflitto israelo-palestinese, tanto più sul web, rasenta, qualora non si sia in un’area protetta, ossia composta di interlocutori disponibili allo scambio ragionato (cosa peraltro assai rara), l’implosione di ogni forma residua di ragionevolezza a fianco dell’esplosione di una amplissima varietà di livori e contumelie, conditi da aggressività di ogni genere e tipo. Alla contrapposizione delle cose e delle persone si somma e si sostituisce quindi quella delle parole, alimentandosi da sé, come una sorta di moto auto-rafforzativo. Ci si attende, in certi momenti, che alla fine delle “conversazioni”, qualcuno fuoriesca dal monitor con una rivoltella in mano, o eventualmente una roncola, un pugnale, magari una bomba, per “regolare i conti” una volta per sempre. Una parte fondamentale di quella incartapecorita partitura che si ripete nel corso del tempo e che porta stancamente il nome di “conflitto” tra israeliani e palestinesi sta proprio dentro involucro di immagini stereotipate, di violenze verbali gratuite, di volgarità delegittimatorie variamente assortite e proferite transitanti sui mezzi di comunicazione di massa ed amplificate da una incoscienza collettiva che spasima per definirsi e riconoscersi falsamente in quanto “opinione pubblica”. Il web ha concorso a rigenerare una fallace tensione ideologica intorno ad un confronto del quale, anche per eccesso di comunicazione, si è spesso perso anche il residuo senso storico. Si tratta di un conflitto dai capelli bianchi, quasi senescente, ripiegato su di sé. Poche altre vicende collettive, frequentemente ancora aperte e comunque non meno dolorose, hanno ricevuto una così tanto dettagliata attenzione a fronte di un’ossessiva, pervicace, maniacale deformazione. Qualcuno, tanto per fare un esempio tra i diversi possibili, presta una qualche attenzione alla tragedia quotidiana della guerra civile nel Sudan meridionale, resosi indipendente in questi ultimi anni e, dall’inverno del 2013, di nuovo attraversato da una guerra civile dilacerante? Non a caso di tale stato di cose, a parte gli analisti e gli studiosi, poco o nulla ci raccontano le cronache quotidiane. La quasi totalità dei “giudizi” formulati riguardo al confronto tra israeliani e palestinesi proviene, se ne può stare certi, da due categorie molto disponibili alle battaglie virtuali: coloro che non sanno e non vogliono sapere ma ritengono di dovere dire agli altri cosa debbano pensare; quanti sono posseduti da un bisogno di partigianeria che travalica nell’inumano, soprattutto quand’esso indica la disumanizzazione di ciò che sta intorno a sé, ritenendolo, nella migliore delle ipotesi, un accessorio per i propri bisogni emotivi. L’isteria prodotta dalla diabolizzazione del sionismo, della quale ancora in tempi recentissimi abbiamo avuto più di una “illustre” manifestazione, fa da cornice a questo ordine di pregiudizi. Sulle dinamiche di traslazione dell’avversione antisemita nei confronti dello Stato degli ebrei, inteso come anello terminale di un processo di “occupazione del mondo” da parte dei “giudei”, ancora debbono essere scritte parole chiare e definitive. Non mancano le analisi ricche di spunti, come quelle di Robert S. Wistrich, Elhanan Yakira, Jeffrey Herf, Pierre-André Taguieff, David Nirenberg e di altri ancora. La lettura della valanga di gratuità che i social network ci restituiscono dà, tuttavia, nuova sostanza alla riflessione in merito. Due dinamiche, tra di loro intrecciate, si rivelano nella loro natura di intelaiatura dell’«immagine antiebraica dell’ebreo» (Taguieff) pervicamente ripetuta online: la percezione e la cristallizzazione, nell’altrui sentire, di una solidarietà di gruppo, ossia comunitaria, rafforzata dalla religiosità intesa come tradizione, vincolo, ortoprassi esoterica e ripetizione, dalla quale deriverebbe l’idea di una permanente separatezza e di una irriducibilità ebraica all’integrazione; dall’altro lato, la dimensione diasporica come indice di una vocazione al nomadismo, all’ibridazione (intesa come “contaminazione” delle identità altrui), alla dispersione ai quattro angoli del mondo per meglio dominarne le dinamiche, in un ruolo tuttavia esclusivamente parassitario. Se il primo asse indica la relazione stigmatizzante tra ebraismo ed “esclusivismo”, il secondo rinnova il legame tra potere, complotto e manipolazione. L’incrocio tra i due assi, che si celebra nella retorica del “sionismo mondiale” (semanticamente una contraddizione in termini, poiché attribuisce ad un nazionalismo in essere la volontà di sovrapporsi al mondo; storicamente, tuttavia, è la traduzione della triste idea nonché dell’infelice immagine dell’ebraismo come “piovra” tentacolare, che cerca in tutti i modi di impossessarsi del pianeta soggiogandone i popoli), conduce direttamente alla delegittimazione d’Israele. Lo fa intersecando l’accusa di abusivismo storico (l’“entità sionista di Palestina” non ha altra ragione d’essere che non sia quella di coordinare il complotto giudaico a livello internazionale) a quella di “razzismo ebraico”, quest’ultimo incorporato nella natura stessa del sionismo, che non sarebbe un pensiero nazionale ed un insieme di atti politici ad esso connessi bensì la manifestazione incontrovertibile del suprematismo giudaico. In altre parole, la prova provata di una tale, inconfessabile volontà. Non è un caso, infatti, che la «nazificazione del nazionalismo ebraico» (Taguieff) nell’immaginario collettivo, e quindi anche e soprattutto del web, si sia accompagnata ai mutamenti sociali, politici e culturali del vasto insieme di forze che connotano il cosiddetto campo antimperialista, dal momento che una parte di questo è stato investito dei processi di islamizzazione del discorso antigiudaico. La resocontazione del conflitto israelo-palestinese si incrocia e viene filtrata da questa disposizione d’animo. Cristallizzandone le forme e i contenuti, destoricizzandolo, decontestualizzandolo. Un vecchio confronto per una recente demenza che non è mai stupidità ma sempre coerenza della falsa coscienza, quella espressa dalle metamorfosi dell’antisemitismo contemporaneo.
Claudio Vercelli
(30 ottobre 2016)