Divieto d’immagine, dovere di bellezza

schermata-2016-10-31-alle-12-59-27Arte ed ebraismo sono generalmente posti alla più grande distanza l’uno dall’altra a causa del divieto biblico di immagini. Tale divieto viene identificato con quello di idolatria, invertendo il rapporto di causa-effetto tra i due, come se il primo costituisse il divieto vero e proprio e non una sua applicazione specifica, sia pur particolarmente esemplare. Viene quindi interpretato come un divieto assoluto e aprioristico nei confronti di qualsiasi tipo di immagine e manifestazione artistica, come una separazione estrema e inconciliabile tra sfera etico-religiosa e dimensione estetica.
Ad esempio, secondo Hegel, il Dio ebraico, in quanto privo di immagini, è un’astrazione solo per il pensiero e non lascia “posto per l’arte figurativa, che ha completamente bisogno della più concreta vitalità della figura” (G. W. F. Hegel, Estetica, Feltrinelli, 1963, p.199).
Il divieto di immagini è interpretato anche come disprezzo nei confronti della sensibilità e come una sua irreversibile subordinazione alle facoltà intellettuali. Secondo Freud, “significa posporre la percezione sensoria alla rappresentazione cosiddetta astratta, un trionfo della spiritualità sulla sensibilità, […] una rinuncia pulsionale con le necessarie conseguenze psicologiche” (Sigmund Freud, L’uomo Mosé e la religione monoteista, Bollati Boringhieri, 1977, p.125). Già Maimonide aveva sferzato duri attacchi contro la sensibilità, l’immaginazione, il tatto, la materia: “ogni difetto razionale o morale è opera dell’immaginazione” (Mosè Maimonide, Le Guide des Ègarés, Verdier, 1979, II, 12, pp.275-276), “ogni distruzione corruzione o imperfezione non ha per causa che la materia” (ivi, III, 8, p.427). Maimonide approva la definizione del tatto che Aristotele dà nell’Etica nicomachea, III, 13 come una vergogna che l’uomo possiede in quanto animale. I pagani idolatri prendono il tatto come loro scopo, mentre l’uomo monoteista deve perseguire solo gli intellegibili. Bisogna darsi cura di pensare a D-o in modo intellettuale e “non mediante l’azione fantastica dell’immaginazione” (ivi, III, 51, p.620). Le prescrizioni della Legge non hanno altro scopo che distruggere integralmente l’idolatria, ovvero “eliminare tutti gli impulsi della materia” (ivi, III, 8, p.428; III, 51, p.619).
Talvolta il divieto di immagini è interpretato addirittura come l’effetto di un’assenza congenita dell’inclinazione artistica (Morris Jastrow, Jr., Immanuel Benzinger,Art among the Ancient Hebrews, in Jewish Enciclopedia, vol. II, p.141). Martin Buber, pur non ritenendola innata, suppone che questa deficienza visiva fosse indotta da condizioni geografiche e sociali: la vita nomade sarebbe stata, a suo avviso, ostile a immagini visive; ma, anche nella vita più stanziale condotta nell’antica Palestina, gli effetti anti-cromatici del sole del deserto sarebbero stati un ostacolo all’impulso visivo e all’arte (Martin Buber, Jüdische Künstler, Berlin 1903).
In questa prospettiva, i numerosi fenomeni artistici scoperti all’interno della tradizione ebraica vengono riportati a influenze esterne o tendenze minoritarie eterodosse rispetto alla presunta rigida iconoclastia del giudaismo rabbinico. Emblematica è la posizione dello storico delle religioni americano Erwin Goodenough, che, nel suo lavoro monumentale Jewish Simbols in the Greco-Roman Period (Princeton University Press, 1988), inventa un giudaismo ellenistico-filoniano, gnostico, mistico, escatologico, per spiegare tutte le produzioni artistiche ebraiche di quel periodo: l’arte funeraria delle catacombe di Bet Shearim, i mosaici e gli affreschi murali delle sinagoghe palestinesi e di quella di Dura-Europos.
Tali fenomeni vengono altrimenti giustificati come una semplice tolleranza per qualcosa di esclusivamente e innocuamente decorativo (cfr. J. B. Frey, La question des images chez le juifs», in Biblica, XV, 1934): si svuota di senso l’estetica, lasciando intatta l’interpretazione estremistica del divieto. Per tale interpretazione ci si appoggia, spesso, al famoso aneddoto talmudico (T.B., Avodah Zarà, 44b) di Rav Gamliel che frequenta in Acco un bagno pubblico in cui si trova una statua di Afrodite. Alla domanda se quest’atto non costituisca una trasgressione del secondo comandamento, egli si giustifica affermando che non il bagno è stato costruito per la statua, ma la statua è stata fatta per decorare il bagno; d’altronde non può trattarsi di qualcosa di grande valore, se davanti ad essa tutti urinano.
Tutte le interpretazioni qui esemplificate, si reggono sinteticamente sul seguente sillogismo: a) la Torà vieta categoricamente in quanto idolatrici ogni immagine e il sensibile in quanto tali; b) l’arte è imitazione, manifestazione sensibile del reale (materiale o spirituale che sia); c) l’arte – in particolar modo quella figurativa, ma, in quanto in ogni caso ha a che fare con la materia e col sensibile, anche l’arte in genere (anche se generalmente si è più clementi rispetto a poesia e musica) – per l’ebraismo è idolatrica e dunque da respingere o da guardare con sospetto.
Le premesse a) e b) su cui poggia tale sillogismo sono erronee: la prima è il frutto di un’interpretazione estremistica, ma in realtà filologicamente e storicamente scorretta, del divieto biblico; la seconda rispecchia una concezione superficiale o per lo meno parziale dell’arte. Restando fermi a tali premesse tra arte ed ebraismo non c’è possibilità d’incontro.
Numerosi sono gli studi che, pur mostrando l’irriducibile molteplicità di atteggiamenti all’interno della tradizione ebraica, oscillanti tra rigorismo e indulgenza, a seconda dei contatti positivi e di pacifica convivenza o negativi e di pressione assimilatoria che gli ebrei hanno avuto con le culture filo-iconiche, hanno cercato di smentire l’inconciliabilità tra arte ed ebraismo da un punto di vista storico-filologico.
Una corretta interpretazione terminologica ha mostrato come il divieto non vada riferito né all’immagine né all’arte in quanto tali, ma solo all’uso cultuale e idolatrico che si può fare, non solo dell’immagine, ma di qualsiasi cosa, sia essa “in cielo al di sopra o in terra al di sotto o nelle acque al di sotto della terra”, come si specifica in Esodo 20, 4 e Deuteronomio 5, 8).
Dalle testimonianze stesse della Bibbia, delle leggi rabbiniche contro l’idolatria – raccolte soprattutto nel trattato talmudico Avodah Zarà – e dalle ormai numerose scoperte archeologiche, risulta inoltre che un’arte tra gli ebrei è sempre esistita (a partire dalle lunghe descrizioni bibliche per la costruzione del Tabernacolo della testimonianza e del Tempio di Salomone) e non solo a fini esclusivamente estetico-decorativi.
La dimensione estetica è, infatti, riconosciuta, nei testi biblici e nei commentari talmudici e midrashici, come valore fondamentale, addirittura come valore di “santità”, e comandata come dovere etico (Hiddur Mitzvà). Un’unica parola,“tov”, esprime in ebraico i due concetti di bello e di bene: fenomeno che nell’ottica del monoteismo ebraico non può essere velocemente liquidato – come invece fa J. Frey (op. cit., p.270) – come prova di un’iconoclastica assenza di spirito artistico nel popolo ebraico.
L’artista Bezalel, assegnato alla costruzione del Tabernacolo, è “riempito di ispirazione divina, scienza abilità, intelligenza […] per concepire opere artistiche” (Esodo, 35, 30-31, cfr. anche Rashi su Esodo, XXXI, 4). I maestri talmudici vedono addirittura nel nome Bezalel la prova della santità dell’artista che lavora all’ombra del Signore (Bemidbar Rabbah, XV, 10) e ritengono che il suo spirito fosse talmente elevato da riuscire a comprendere anche gli ordini ricevuti da Mosé sul Monte Sinai (T.J., Péa, I, 1).
Il Signore stesso è considerato come artista supremo: il versetto di I Samuele, II, 2, “Non vi è alcuna rocca [tsur] pari al Signore”, è interpretato, giocando con la radice, nel senso di: “Non vi è artista [tsayar] pari al Signore”(T.B., Berakhot, 10a).
In Proverbi, I, 8-9 e III, 22, le mitzvòt sono paragonate a dei gioielli preziosi: “una corona di grazia al tuo capo e un monile al tuo collo”. Per questo esse devono essere custodite gelosamente e meticolosamente curate.
I rabbini interpretano letteralmente il versetto di Esodo, XV, 2, “Questo è il mio D-o e io lo glorificherò”, nel senso di “lo adornerò”, “lo abbellirò”. Nel chiedersi come è possibile abbellire il Creatore, rispondono che “si possono abbellire gli oggetti mediante i quali si adempiono i suoi precetti: così si può scegliere un bel lulab, una bella sukkah, un bello shofar, degli tzìtzìt belli o dei bei tefillin” (T.J., Péa, I, 1; T.B., Shabbat, 133b). Un’altra risposta si può rintracciare indirettamente in Devarim Rabbah, II, 37: Israele deve adornare D-o in dieci modi, deducibili dalle dieci volte in cui, nella Torà, il Signore si riferisce a Israele come se fosse la sua sposa (cfr. Shemot Rabbah, Ki Thissa, XLI, 5).
Rashi ritiene che il versetto, “Ricordati del giorno del sabato per santificarlo” (Esodo, XX, 8), vada interpretato in tal modo: “Fate attenzione a ricordare sempre il giorno di sabato, e nel caso ti capitasse qualcosa di bello, serbalo per il sabato”. Inoltre commenta il divieto, espresso in Deuteronomio XIV, 1, di radersi, farsi tatuaggi o incisioni: “non dovete fare come fanno gli Amorei, perché voi siete figli di D-o e, quindi, dovete essere belli”. Riguardo alle indicazioni per la costruzione del Tabernacolo in Esodo, XXVI, 12, infine afferma: “La Torà dà qui una norma di comportamento secondo la quale una persona deve aver cura dei suoi oggetti artistici”.
La benedizione di Noè “Che D-o estenda i confini di Yafet e abiti nelle tende di Shem” (Genesi, 9,27) è interpretata dai maestri talmudici nel senso che “D-o doni la bellezza a Yafet” (giocando sulla radice yft che è la stessa sia per Yafet che per “bello”) e che il greco, la lingua della bellezza per eccellenza, sia accolto da Shem (T.B., Meghillà, 9b).
Negli studi sempre più numerosi che appaiono sul divieto di immagini e sul suo rapporto con l’arte, mi sembra però carente una riflessione sulla legittimit, non solo fattuale, ma anche sostanziale di un incontro tra arte ed ebraismo, che s’interroghi sul senso e sul valore unitario, monoteistico, della possibilità di questo incontro.

Raffaella Di Castro

(31 ottobre 2016)