Università ebraica, il Capo dello Stato
“Memoria, responsabilità e solidarietà”

schermata-2016-10-31-alle-10-40-27Vi ringrazio molto per le parole di solidarietà rivolte nei confronti dell’Italia, con riferimento al terremoto che in questi giorni ha colpito molti Comuni dell’Italia centrale in diverse Regioni, aggiungendosi a quello che aveva colpito altri Comuni alla fine del mese di agosto.

Sono giorni tristi per l’Italia. Sono stati danneggiati fortemente – in agosto anche con numerose vittime – Comuni con molta storia, con grande fascino architettonico, ricchi di monumenti e di vita quotidiana. Nei prossimi mesi e nei prossimi anni l’Italia è e sarà impegnata a ricostruirli così come erano.

Ringrazio molto il Presidente dell’Università per l’invito rivoltomi ad essere qui oggi con voi, con illustri professori di questa Università, con gli studenti, cui mi rivolgo particolarmente. È un’emozione particolare essere oggi qui con voi a Gerusalemme, in questa straordinaria città.

Desidero per questo ringraziare calorosamente il Presidente e le Autorità dell’Ateneo, per l’invito alla inaugurazione dell’anno accademico di un’Università che costituisce un centro propulsore del sapere scientifico ed umanistico il cui prestigio trascende i confini di questo Paese.

Qui hanno coltivato il loro talento grandi studiosi, accademici e diversi premi Nobel. A tutti loro l’umanità deve il raggiungimento di traguardi del sapere che hanno favorito la crescita, in ogni campo, delle nostre società.

Quasi cento anni fa si posava qui la prima pietra dell’Università Ebraica, con nomi illustri fra i suoi fondatori: Freud, Buber, Bialik.

A testimonianza dell’ammirazione nutrita, lo stesso Albert Einstein decise di donare a questa accademia il suo archivio personale oltre che i diritti di sfruttamento della propria immagine.

Sono molto grato al Professor Ben-Sasson per avermi offerto la possibilità di ammirare alcuni appunti dello scienziato – soprattutto un uomo straordinario – che ci ha condotto a scoperte e conoscenze senza precedenti, tracciando sentieri del pensiero che ancora oggi percorriamo e che ci hanno introdotti in un mondo nel quale tecnologie sino a pochi anni addietro futuristiche sono, ormai, alla portata di tutti.

Le conoscenze che la ricerca scientifica ci ha donato ci permettono di dialogare connettendoci da una parte all’altra del pianeta senza difficoltà; hanno ridotto drasticamente i tassi di mortalità e hanno accresciuto le aspettative di vita.

Al raggiungimento di traguardi scientifici e tecnologici straordinari non sempre ha corrisposto nella storia, in eguale misura, un avanzamento della nostra sensibilità umana e civile.

E’ come se, in concomitanza con l’aumentare degli strumenti a nostra disposizione, fosse in qualche modo avvenuto, talvolta, un progressivo oblìo di alcuni elementi sapienziali che, tra l’altro, avevano contribuito, nei secoli, allo sviluppo positivo della convivenza.

Accadde qualcosa di simile qualche secolo addietro, nella Roma al tramonto dell’Impero, con una regressione impressionante. Emblematico fu un fenomeno che consente di riflettere su quanto quella società – organizzata, complessa, articolata, piuttosto libera, quindi somigliante a molte di quelle di oggi in tante manifestazioni – fosse progredita ma avesse, via via, dissipato il sapere che aveva accumulato e su cui si era fondata la sua affermazione e il suo sviluppo.

I saccheggi, devastanti, cui Roma fu sottoposta, avevano risparmiato le terme, con il loro significato di luoghi di incontro, e i suoi cittadini continuarono a frequentarle. Si trattava di edifici che avevano richiesto, per la loro edificazione e per il loro funzionamento, una sofisticata tecnologia ingegneristica.

Negli anni successivi alla fine dell’Impero, quando le condotte di alimentazione delle terme si deteriorarono, e tutto il sistema delle acque giunse al collasso, i romani scoprirono di non disporre più di competenze in grado di rimetterle in funzione. E un elemento tra i migliori della civiltà dell’epoca venne meno.

La conoscenza alla base del progresso tecnologico si era persa e, con essa, un aspetto non secondario della convivenza.

Era stato commesso l’errore fatale di considerarla una condizione acquisita per sempre.

Sta, forse, accadendo qualcosa di simile anche oggi?

Stiamo dando per acquisite, condizioni, conoscenze, idee, traguardi per i quali la ricerca si è impegnata e per i quali generazioni si sono battute senza che ci rendiamo conto che esse, invece, sono perennemente a rischio?

Vi sono idee, conoscenze e capacità proprie dell’essere umano che in noi stanno perdendo forza?

Il risultato della dissipazione della memoria comporta, per le nuove generazioni, il rischio di ripetere errori talora commessi in passato da quelle precedenti.

Si ha lasensazione che queste domande siano al cuore dei grandi problemi che le nostre società sono chiamate a risolvere.

Il mondo è stato reso piccolo dalla globalizzazione – il suo modo di essere è necessariamente più “in comune” – e questo ha reso le disuguaglianze più evidenti, marcate e, a lungo andare, insostenibili, oltre che moralmente inaccettabili.

Il divario nelle conoscenze tecnico-scientifiche si è trasformato in una barriera difficilmente sormontabile.

E’ diventato assai facile e forse persino luogo comune pensare che tutti possano oggi accedere a livelli di sapere simili. Ma la realtà di tutti i giorni ci insegna che non è così.

Basti ricordare che, oggi, oltre un miliardo e duecento milioni di persone non hanno accesso all’energia elettrica.

Lo straordinario progresso tecnologico di questi ultimi cinquanta anni – di cui tutti, auspicabilmente, dovrebbero usufruire – si è trasformato, sovente, in un ulteriore fattore di divisione, in una nuova faglia che attraversa le nostre società, che separa, suo malgrado, coloro che hanno potuto beneficiare del progresso da quanti sono comunque lasciati indietro.

Si tratta di coloro che, sempre più comunemente, vengono definiti gli “sconfitti” della globalizzazione, ai margini delle società sviluppate e all’interno dei Paesi ancora in via di sviluppo.

E’ una realtà con ampie ripercussioni, e non soltanto nelle società occidentali.

Il nodo delle migrazioni, che ha portato ad un dibattito assai vivace – e tutt’altro che concluso – nell’Unione Europea, spingendo le opinioni pubbliche di alcuni Stati membri su inedite posizioni di chiusura, è indicativo su questo piano.

Siamo chiamati, e lo saremo sempre di più negli anni a venire, a mettere insieme tutte le nostre forze per rispondere alle esigenze di una parte crescente della popolazione mondiale che deve essere posta in condizione di condividere – in un lasso di tempo congruo – il livello di conoscenza e benessere che le nostre società hanno ormai acquisito.

E’ questo il significato profondo della solidarietà che società sviluppate, come le nostre, hanno il dovere di esercitare.

Le tecnologie e la scienza non bastano, da sole, a farci superare l’irrazionale paura dell’altro.

Occorre una adeguata visione dell’uomo e del suo stato.

L’idea di reagire soltanto “chiudendosi” dentro un proprio spazio può forse rassicurarci nel breve periodo, ma non può costituire una strategia a lungo termine. I fenomeni vanno compresi e governati, non affrontati soltanto con misure passive.

Siamo oggi chiamati ad affrontare questa situazione con rinnovato spirito solidale, e a rispondere attraverso quello che si configura come un immenso – ma indifferibile – impegno anche educativo.

A differenza di quanto avviene nel campo delle scienze, dove i progressi di oggi si sommano a quelli già acquisiti, nell’ambito della formazione le possibilità di “accumulazione”, per così dire, sono ben più limitate.

Ogni persona è sempre nuova, così come ciascuna generazione è sempre nuova.

Una generazione può mettere la successiva nelle condizioni di poter ereditare i propri beni e le proprie conoscenze, ma non potrà far conoscere i propri valori se non attraverso un impegno costante, capillare, diffuso.

I valori si trasmettono, naturalmente, soltanto se si continua a viverli, con spirito di dialogo, di responsabilità e di tensione solidale.

Se noi, quindi, crediamo fermamente in quegli stessi valori faticosamente posti alla base delle nostre società – contrassegnate da diritti, garanzie, libertà e doveri, dal rifiuto del bellicismo, del terrorismo e di ogni altra sopraffazione -, se vogliamo che quei valori continuino a costituire l’elemento cardine per far sì che democrazia e dialogo prevalgano, che il rispetto della legge e la pace prendano il sopravvento, dobbiamo allora seriamente impegnarci per la loro salvaguardia dove esistono, e per la loro diffusione dove sono assenti.

Grava su di noi quindi una grande responsabilità.

Una responsabilità che per società antiche – che, come le nostre, affondano le proprie radici in una storia millenaria – è, forse, anche maggiore.

Le idee, gli stili di vita, i modelli normativi, gli orientamenti e le spinte ideali delle nazioni nelle quali viviamo costituiscono un importante catalizzatore che ci può – e ci deve – aiutare a trasmettere alle nuove generazioni così come a condividere con coloro che vengono in contatto con noi, le fondamenta delle società democratiche perché le nuove generazioni possano, appunto, renderle sempre migliori e modellarle con nuovi e crescenti traguardi positivi.

A fronte di queste aspirazioni dobbiamo pensare con responsabilità al tumultuoso fenomeno delle migrazioni, e ai nostri vicini del Mediterraneo e dell’Est, prossimi a noi.

Dobbiamo pensare con allarme ai drammi dei conflitti che stanno insanguinando tutta la regione medio-orientale, con sofferenze indicibili per la popolazione civile.

Nel panorama che ho cercato di tracciare, Israele, con la sua democrazia, ci richiama alla cultura e alla responsabilità della memoria, congiunta a una tensione continua verso la modernità e il progresso. Una memoria che ci parla anzitutto di lotta per l’affermazione della dignità di ogni persona, quale che sia il Paese e la latitudine in cui si trovi a vivere, quale che sia il suo status.

La memoria della Shoah, un valore fondante della società israeliana sospinge in questa direzione. La Shoah è divenuta, anche nel nostro Paese, un tratto costitutivo.

L’Italia repubblicana, nata sulle spoglie di un regime che aveva condotto il Paese e i suoi cittadini nel baratro della guerra. Un regime che aveva ripudiato in modo odioso una componente del suo stesso popolo, quella di origine ebraica, che aveva contribuito – da sempre – alla vita civile del Paese a partire dalla pagina fondante del Risorgimento.

L’Italia vanta oggi fondamenta solide, si è riconciliata con la storia autentica del suo popolo e ha fatto proprio il valore delle parole “mai più”, che costituiscono un monito sempre presente.

E’ questo il senso profondo dell’omaggio silenzioso che, ogni anno, viene reso ai caduti delle Fosse Ardeatine, simbolo doloroso dell’odio e della sopraffazione.

Si tratta del senso di responsabilità di chi intende coltivare la memoria per sviluppare anticorpi contro il ripetersi di uno sconvolgimento così radicale dei valori di convivenza civile, tale da rendere talvolta, ieri come oggi, uno Stato capace di rivoltarsi contro propri cittadini, contro esseri umani inermi.

Il culto della memoria, naturalmente, non deve essere diretto ad alimentare i contrasti, rendendoli eterni.

Al contrario, deve costituire esercizio per il loro superamento in nome della causa dell’umanità e deve rappresentare un elemento sul quale incardinare un impegno e una responsabilità nei confronti delle generazioni future e dei tanti che bussano alle nostre porte.

La convivenza di diverse anime all’interno di una società, la multiculturalità, è un dato di fatto acquisito del nostro mondo, ma le difficoltà poste dalle barriere linguistiche, e più ancora delle differenze di credo e tradizione, continuano ad essere rilevanti e insidiose.

La sapienza di società antiche, come quelle cui apparteniamo, comprende, tuttavia, anche la capacità di cimentarsi con sfide apparentemente impossibili.

Forse anche la nostra epoca è ben descritta dalla descrizione dell'”Angelus Novus” di Paul Klee, resa immortale dalle parole di Walter Benjamin.

Un angelo della storia con lo sguardo rivolto al passato e le spalle al futuro, mentre la tempesta dell’avanzare del mondo sconvolge le sue ali.

Il futuro appare paradossalmente alle spalle, sconosciuto e irto di pericoli.

Il passato si coglie in uno sguardo. E’ davanti ai nostri occhi, lo vediamo, lo meditiamo e, a volte, vi troviamo anche conforto.

Non possiamo però indulgere in questa illusoria serenità.

Il vento della storia spira impetuoso e non sappiamo quanto forte sarà e non sappiamo quanto tempo ci sarà dato per metterci in condizione di governarlo.

La nostra responsabilità primaria è comprendere che in quel futuro ignoto vi sono anche opportunità, possibilità che dobbiamo cogliere per rendere più sicuro, progredito e concorde il mondo nel quale viviamo.

La sfida, tuttavia, non si limita alla capacità di cogliere tali opportunità, ma, soprattutto, nel sapere condividere la loro trasformazione in risultati.

Cari studenti,

apertura al futuro, impegno e responsabilità sono valori profondamente radicati nelle nostre società.

Ed è per questi motivi che i rapporti tra i nostri due Paesi vivono, ad ogni generazione, una nuova stagione di reciproco interesse, amicizia e curiosità.

La curiosità, nelle parole di Einstein, è “una piantina delicata che, a parte gli studi, ha bisogno soprattutto di libertà”.

Quella libertà che caratterizza le nostre società e che dobbiamo saper condividere con gli altri popoli.

Perché la libertà è indivisibile. La si può godere appieno soltanto insieme a tutti gli altri.

E’ la base sulla quale si fonda un rapporto bilaterale solido, profondo, multidimensionale, che vede nella cultura, nella ricerca e nella cooperazione scientifica i suoi punti di eccellenza.

La traduzione in italiano del Talmud curata, d’intesa con l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, dalla Presidenza del Consiglio, dal Ministero dell’Istruzione e della Ricerca Scientifica e dal Consiglio Nazionale delle Ricerche, così come il Museo nazionale dell’Ebraismo e della Shoah, rappresentano una ulteriore dimostrazione dello spessore e dell’intensità del tessuto culturale che lega i nostri Paesi.

Per questa ragione, sono particolarmente lieto di essere a Gerusalemme in coincidenza con la celebrazione del centenario della nascita di due tra i maggiori scrittori di lingua italiana del ‘900, Giorgio Bassani e Natalia Ginzburg.

E’ significativo ricordare come due personalità che così tanto hanno contribuito a determinare i tratti distintivi della letteratura italiana contemporanea siano così profondamente rivelatori della cultura ebraica, nel ritmo del tempo e nella struggente intimità che hanno saputo raccontare.

Memorie, le loro, che non sono puro rimpianto né mere nostalgie. Una memoria che si fa forza attiva nello smuovere le coscienze, nel sollecitare, nell’educare, nel formare una coscienza civile, nel produrre cultura.

Sono esempi dei quali tutti noi, israeliani ed italiani, possiamo andare fieri.

Shalom!

Sergio Mattarella, presidente della Repubblica

(Intervento tenuto in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università Ebraica di Gerusalemme)

(30 ottobre 2016)