…critica
A me la politica del premier Netanyahu non piace molto. E sono anche convinto che i palestinesi non stanno facendo una bella vita. E tuttavia queste considerazioni e molte altre che si potrebbero fare non esimono nessuno, di qualsiasi colore politico e convinzione, dal riconoscere che le risoluzioni dell’Unesco di questi giorni rivestono un innegabile carattere antisemita non meno di quanto siano a priori antiisraeliane.
Per questo mi lasciano insoddisfatto le dichiarazioni di amici che giustificano l’Unesco argomentando che essa volesse semplicemente sottolineare l’ingiusto trattamento a cui sono sottoposti i palestinesi e i ‘loro’ luoghi sacri. Non si afferma un diritto negandone un altro, non è morale. Non si afferma il diritto dei palestinesi negando il diritto degli ebrei (non solo israeliani), e soprattutto negando e cancellando la verità storica. L’Unesco – l’ho già scritto e lo riscrivo – con questa strumentalizzazione politica ha rinnegato se stessa e il suo ruolo di organizzazione culturale. Non credevo che si potesse arrivare a tanto. Ma non credevo, anche, che menti lucide di tanti amici potessero arrivare a nascondere a se stesse questa semplicissima verità. La partigianeria non ha mai fatto bene all’onestà intellettuale. E fa male anche alla causa per cui ci si batte, qualunque essa sia.
Il caso Unesco mi ha dato l’occasione infausta di riflettere sulla mia posizione politica. Non credo di essere mai stato fra i sostenitori acritici di Israele; mi piace ancora pensare che Israele sia o debba essere una nazione ispirata a principi etici più di quanto non lo siano altre nazioni o altri popoli. È una mio credo arrogante, lo riconosco. Ma, mi sto chiedendo, sono critico nei riguardi di Israele al punto da diventare masochista? Al punto da non vedere i torti storici della parte avversa? O da non vedere che certe risoluzioni internazionali sono ispirate da un antisraelianismo strumentale e aprioristico, quando non da aprioristico antisemitismo?
Bene, mi dovrò rassegnare a rimanere senza amici, a destra e a sinistra, ma non mi va di rinunciare a pensare criticamente. E ‘criticamente’, lo dico agli amici, significa con atteggiamento critico anche nei riguardi di se stessi e delle proprie posizioni. Far critica presume che si giudichi distinguendo, che si cerchi di rimanere a distanza dalle cose e dalle parti. Quando si sposa toto corde una causa, qualsiasi essa sia, ci si ritrova criticamente ciechi. Una cecità che necessiterebbe di approfondita analisi.
Dario Calimani, Università Ca’ Foscari Venezia
(1 novembre 2016)