Tina Anselmi (1927 – 2016)
Dalla Resistenza alla politica
nel segno della Memoria

Profondo cordoglio nelle istituzioni e in tutto il paese per la scomparsa di Tina Anselmi, ex partigiana e prima donna ministro in Italia. Una figura che, come sono in molti a riconoscere in queste ore, ha segnato in modo decisivo la sua epoca.
Giovanissima staffetta partigiana, sindacalista appassionata, madre della legge sulle pari opportunità, ministro del lavoro e della previdenza sociale, principale autrice della riforma che introdusse il Servizio sanitario nazionale e guida della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla Loggia P2. E, tra i tanti incarichi, anche presidente della Commissione di indagine sui beni sottratti ai cittadini ebrei negli anni delle persecuzioni antisemite (’38-’45) istituita sul finire degli Anni Novanta. Un lavoro di ricerca ingente, svolto in stretto raccordo con l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e con un pool di storici e studiosi del fascismo, che permise di far emergere sin dalle prime battute, come raccontò la stessa Anselmi in una intervista all’Espresso, una incontestabile verità. E cioè il fatto che la burocrazia fascista “abbia lavorato quasi in tutta Italia con grande zelo, nonché pignola e stupida crudeltà, all’applicazione delle leggi antiebraiche emesse da Mussolini a partire dal 1938”.
Molti commentano in queste ore la scomparsa di una donna straordinaria, la cui vita fu inevitabilmente segnata, ancora adolescente, dall’esecuzione di 31 partigiani impiccati per rappresaglia cui fu costretta ad assistere insieme ad altri studenti. Quel fatto così cruento e terribile la spinse a prendere parte attiva alla Resistenza, cui si unì con il nome di battaglia di Gabriella. Prima come staffetta della brigata Battisti, quindi al comando regionale veneto del Corpo volontari della libertà.
“Un pensiero a Tina Anselmi, grande esempio di cattolica impegnata in politica e donna delle istituzioni” afferma il primo ministro Matteo Renzi. “Partigiana, prima donna ministra, inflessibile avversaria dei poteri occulti. Con Tina Anselmi se ne va una madre della democrazia italiana” afferma la presidente della Camera Laura Boldrini.
“Tina Anselmi c’è stata e il mondo lo ha cambiato” scrive sul proprio profilo twitter la ministra Maria Elena Boschi ricordando un suo celebre motto: “Capii allora che per cambiare il mondo bisognava esserci”.
Scrive la ministra Giannini: “Partigiana. Prima donna ministro. Simbolo di onestà e passione politica. Tina Anselmi è stata grande esempio per le italiane e gli italiani”

Adam Smulevich twitter @asmulevichmoked

L’indagine sui beni rubati dal fascismo

«Qualche indicazione tristemente sorprendente è già venuta fuori: a dimostrare come la burocrazia fascista abbia lavorato quasi in tutta Italia con grande zelo, nonché pignola e stupida crudeltà, all’applicazione delle leggi antiebraiche emesse da Mussolini a partire dal 1938». Tina Anselmi parla dietro un gran cumulo di fascicoli nell’ufficio di via della Vite, a Roma: sede della Commissione di indagine sui beni sottratti ai cittadini ebraici negli anni delle persecuzioni antisemite (’38-’45), che è stata chiamata a presiedere all’inizio del dicembre scorso. Una Commissione che sta raccogliendo i primi frutti della sua inchiesta e dovrà certamente chiedere una proroga del mandato in scadenza a fine maggio.
«Quello che sinora abbiamo acquisito sono circa 8 mila decreti di confisca di beni di ebrei, in genere emessi dai capi delle provincie», spiega Anselmi che negli anni Ottanta è stata anche a capo della Commissione sulla P2: «Confische che riguardano case, palazzi, fabbriche, terreni, gioielli, quadri, soldi, ma anche calzini, magliette, mestoli da cucina, libri, sottovesti, sedie… Ed è interessante notare che non più del 20 per cento di tali decreti sono stati pubblicati nella “Gazzetta ufficiale” (come avrebbe dovuto avvenire) e che i documenti non sono quasi mai firmati: gli stessi burocrati del Fascio si dovevano rendere conto quanto la confisca di un paio di ciabatte usate, di un colapasta e di una maglietta per bambino fosse una cosa ridicola, crudele e controproducente». Tutto si confiscava, tutto si annotava (vedere riquadro in questa pagina): «4 paia calze rammendate. 4 paia calze bambino… 1 cucchiaino piccolo bambino»…
Queste migliaia di documenti ingialliti, che dimostrano come l’antisemitismo dell’Italia fascista non fu affatto un sentimento poco diffuso e mitigato da una presunta bonarietà innata dei nostri connazionali, provengono dai depositi delle questure, delle prefetture e soprattutto dagli archivi storici centrali e periferici. La maggior parte risale al periodo successivo al dicembre ’43 e riguarda quelle “provincie speciali” (Bolzano, Belluno, Trento, Trieste, Gorizia, Fiume…) che dopo l’8 settembre erano finite sotto controllo tedesco. Ma sui tavoli della Commissione sono arrivati decreti di confisca emessi in tutta Italia, escluse quelle regioni del Sud e delle isole dove le comunità ebraiche erano praticamente inesistenti. Per il momento, su 103 prefetture e altrettante questure interpellate dagli inquirenti, rispettivamente 59 e 46 hanno risposto fornendo dei documenti; mentre 75 archivi di Stato su 104 hanno trovato tra i loro faldoni decreti di confisca e altri provvedimenti a danno di cittadini ebrei.
«Questi documenti rappresentano un atto d’accusa ineludibile», sottolinea Anselmi, «perché se a una persona porti via il materasso, le scarpe, lo spazzolino da denti e tutti i suoi soldi, significa che quella persona deve scomparire». Non deve continuare a vivere. Come in effetti è avvenuto per i tanti nostri connazionali di religione ebraica deportati nei campi di sterminio poche settimane dopo l’applicazione dei decreti che li spogliavano di tutti i loro averi. E questo, i tanti funzionari repubblichini che hanno firmato quegli atti, non potevano (e non possono) far finta di non averlo capito o saputo.
Le prime leggi razziali del ’38 stabilirono un censimento delle persone «di razza ebraica» e cominciarono a colpire i loro diritti civili e professionali. Nel ’39-’40 vi fu un censimento dei beni degli ebrei e una limitazione al loro diritto di proprietà e di impresa (non potevano possedere immobili superiori a 20 mila lire di imponibile e aziende con più di 100 dipendenti…). Nel dicembre ’43 un’ordinanza stabilì la confisca «totale» dei beni degli ebrei. Con quale gradualità e quale zelo siano state applicate queste famigerate leggi è uno dei primi punti che la Commissione è chiamata a chiarire. Poi si tratterà di capire che fine abbiano fatto i capitali, gli immobili, le cose depredate dall’amministrazione fascista.
Buona parte del lavoro sarà fatto esaminando gli archivi dell’Egeli, l’Ente per la gestione e la liquidazione dei beni sequestrati agli ebrei, voluto da Mussolini. Dal ’45, con le «leggi riparatrici», è cominciata la restituzione degli averi delle famiglie ebree. Ora, si tratta di rintracciare quello che non è stato ancora restituito e chi ha diritto ad averlo. Una difficile ricerca anche tra i parenti dei tanti deportati ingoiati dalla Shoah. Nel caso in cui non venga individuato nessun legittimo proprietario o erede, i beni e i loro eventuali frutti andranno, in base all’accordo internazionale siglato a Washington, al Congresso mondiale ebraico. Dove confluirà anche il maltolto individuato da analoghe commissioni al lavoro in Germania, Olanda, Francia, Belgio e Danimarca .
A garanzia dell’obbiettività e serietà dei lavori sono stati chiamati a far parte della Commissione tecnici e ricercatori d’alto livello (tra cui: Enrico Granata, direttore centrale dell’Associazione bancaria italiana; Paola Carucci, sovrintendente dell’Archivio centrale di Stato; Luigi Lotti, presidente dell’Istituto storico per l’età moderna e contemporanea), nonché rappresentanti della comunità ebraica (lo storico Michele Sarfatti, del Centro di documentazione ebraica contemporanea; Dario Tedeschi, dell’Unione comunità ebraiche italiane). Ovviamente la parte centrale dell’indagine riguarda le banche, per tentare di individuare se esistono ancora conti dormienti (cioè intestati a persone scomparse), depositi di antica giacenza e cassette di sicurezza rimaste abbandonate. In caso qualcosa venga fuori (e non potrà che essere così), si dovranno cercare eventuali aventi diritto o eredi dei beni. «Sinora il nostro sistema bancario e assicurativo non ha dimostrato nessuna buona volontà in questo senso», spiega l’ex presidente della Bnl Nerio Nesi, «speriamo che la Commissione sappia trovare gli strumenti adatti per indurre i recalcitranti ad aprire archivi e dossier».
Strumenti che, secondo Anselmi, dovrebbero essere stati individuati: l’Abi ha messo a punto un questionario, approvato dalla Commissione, in cui si chiede di fornire indicazioni su tutti gli elementi riguardanti eventuali beni appartenuti ad ebrei in possesso degli istituti di credito. Il questionario è stato spedito circa un mese fa a tutte le banche italiane. Stanno arrivando le prime risposte, ma è troppo presto per tracciare un bilancio significativo.
Alla fine dei suoi lavori la Commissione potrà fornire un’immagine meno sfumata di un periodo vergognoso della nostra storia, la cui memoria molti oggi desiderano allontanare: migliaia di travet della burocrazia fascista furono zelanti complici di un antisemitismo crudele. Di fronte a milioni di cittadini passivi spettatori di nefandezze compiute nella casa accanto.

Mario Scialoja, L’Espresso (n.13/1999)

(1 novembre 2016)