Il silenzio della Chiesa

lucreziAl di là della forte riprovazione per la posizione italiana di fronte alle recenti risoluzioni dell’Unesco riguardo ai luoghi santi – che, com’è noto, in un impressionante crescendo, dopo avere cancellato i legami storici del popolo ebraico col Monte del Tempio, sono subito passate ad attaccare il cristianesimo, negando il significato cristiano di Gerusalemme e Betlemme – ci sarebbe anche da segnalare, purtroppo, l’atteggiamento silenzioso e reticente dei vertici della Chiesa riguardo a questa forma di spudorato negazionismo spirituale. Non rimpiangiamo certo i tempi in cui la cristianità pareva tanto attaccata al Santo Sepolcro e al monte del Golgota da organizzare reiterate guerre di sterminio per la loro riconquista (la cui memoria, per quelli della mia età, più che a giudizi storici di esecrazione e condanna, è ancora istintivamente collegata all’esaltazione delle epiche gesta di eroici guerrieri, chiamati a scacciare gli infedeli e a ripristinare lo splendore della città santa: ecco apparir Gierusalem si vede,/ecco additar Gierusalem si scorge…).
Quei tempi sono passati, per fortuna, e anche a scuola si insegnano cose diverse, lo spazio per Tasso e Ariosto si è molto ridotto, e va bene così. La Chiesa insegna la pace e la civile convivenza tra diversi, e, di fronte al quotidiano dramma dei migranti – quasi tutti di fede islamica – resta una delle poche voci a predicare l’accoglienza e la solidarietà, in un’Europa sempre più chiusa negli egoismi e nelle paure, nei rifiuti e nelle barricate. E ciò, certamente, è una cosa positiva. Ma viene di chiedersi cosa resta, alla fine, del messaggio cristiano, nel momento in cui esso viene ridotto essenzialmente al solo aspetto irenico, misericordioso e caritatevole, in una crescente disattenzione per il presupposto e l’assunto teologico che vuole il cristianesimo una religione rivelata, data agli uomini in un preciso luogo e un preciso momento della storia. Un fondamento di fede che è anche una realtà storica: perché, se la natura divina di Cristo è una verità solo per chi ci crede, il fatto che egli sia stato ebreo, figlio di ebrei, che abbia letto e pregato in ebraico e parlato e predicato in aramaico, che abbia calpestato le strade della Galilea e della Giudea e sia stato processato e condannato da ebreo, è un puro e semplice dato della storia. “Gesù è ebreo e lo resterà per sempre”, si legge nei “Sussidi per una corretta presentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica”, pubblicati nel 1985 dalla Commissione Pontificia per i rapporti con l’Ebraismo: la Chiesa difende ancora questa elementare verità storica? O forse ormai Gesù è diventato talmente universale, talmente “di tutti” da fare scolorire gli elementi terreni della sua vicenda temporale, da fare dimenticare dove, quando e come egli è nato e vissuto? Dubitiamo che San Paolo – l’apostolo delle genti, colui che per primo, e più di ogni altro, ha diffuso la parola di un Cristo “di tutti e per tutti” – sarebbe d’accordo con una simile deriva.
Se non è questa la strada che ha preso la Chiesa, i silenzi di fronte al delirio negazionista dell’UNESCO appaiono difficilmente comprensibili. E si tratta di reticenze, si badi, che prescindono completamente dal rapporto positivo o negativo del cristianesimo rispetto a quella che San Paolo – sempre lui – definì la sua “santa radice”, ossia l’ebraismo, inteso non solo come religione, ma anche come popolo, storia, terra, lingua, tradizione: il popolo, la storia, la terra, la lingua, la tradizione di Gesù e dei suoi apostoli. Perché, nei secoli, la Chiesa ha potuto avere atteggiamenti più o meno benevoli o ostili verso gli eredi viventi del popolo di Gesù, ma non ha mai dimenticato che il Messia è stato il discendente di re Davide, che Davide è stato un personaggio storico realmente esistito, e che è stato re di Gerusalemme, non di Al-Quds.
Non mi interessano le questioni teologiche, e la Chiesa fa quello che vuole. Il cristianesimo di oggi, certamente, è diverso da quello di ieri e dell’altro ieri, e da quello che sarà domani. Mi permetto di pensare, però, che l’obnubilamento delle proprie radici storiche, se c’è, sia un errore, qualunque sia la strada che la Chiesa intenda percorrere. Soprattutto ove mai dovesse trattarsi di una scelta calcolata, di una sorta di acquiescenza o di “captatio benevolentiae” nei confronti dell’altra grande religione monoteista, che rivendica come sua, e soltanto sua, l’intera eredità della Terra Santa; come sua, ed esclusivamente sua, quella Gerusalemme che è nominata 700 volte nella Bibbia, e mai nel Corano. Ricordiamo bene, nell’ultima messa celebrata dal Pontefice a Betlemme, come una studiatissima regia ne abbia trasmesso le parole, in mondovisione, davanti a una grande immagine del bambino Gesù, nella mangiatoia, avvolto nella kefyah. Un bambino Gesù che non ho riconosciuto, e che, più che “di tutti”, mi è piuttosto sembrato “di nessuno”.

Francesco Lucrezi, storico

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(2 novembre 2016)