Verso la Parashat Noach – Tra etica ed estetica
“I figli di Noach usciti dall’Arca erano Shem, Cham e Yefet; Cham è il padre di Kena- ’an. Questi tre sono i figli di Nòach; da essi si diffuse la popolazione in tutta la terra. Noach, agricoltore, fu il primo a piantare la vigna. Bevve del vino, si ubriacò, e si scoprì dentro la sua tenda. Cham, padre di Kena’an, vide la nudità del padre e lo disse, fuori, ai suoi due fratelli. Shem prese il mantello insieme a Yefet, lo posero sulla schiena di ambedue, e camminando a ritroso coprirono la nudità del padre senza vederla, poiché avevano il viso rivolto indietro. Noach, destatosi dal vino, seppe quello che gli aveva fatto suo figlio minore. E disse: “Maledetto Kena’an! Sia servo dei servi dei suoi fratelli!” Disse poi: “Benedetto il S. D. di Shem! Kena’an sia loro servo. D. conceda a Yefet estesi confini ed abiti nelle tende di Shem. Kena’an sia il loro servo!” (Bereshit 9, 18-27). È evidente dall’impostazione del racconto che la Torah gli attribuisce una grande importanza per le sorti dell’umanità post-diluviana. Come nota il famoso commentatore tedesco dell’Ottocento Shimshon Refael Hirsch, i tre figli di Noach non sono semplicemente i progenitori di tre “fette” del genere umano, ma sono anzitutto i portatori di altrettante culture, o sistemi di valori. Lo si vede da come reagiscono all’imbarazzante situazione. Posto di fronte all’ebbrezza e alla nudità di suo padre Cham reagisce deridendolo. Egli è il rappresentante di una cultura materiale, fondamentalmente rude. Il padre lo condannerà a un destino di servitù. Diverso è il caso dei due fratelli Shem e Yefet. Essi concordano nel rispondere al problema in modo costruttivo ma, è bene farlo notare, il punto di partenza, la spinta all’azione non è comunque la stessa in entrambi. Wayiqqach Shem wa-Yefet: il verbo “prese” è scritto al singolare, anche se le persone soggetto sono due! E logica vuole che il verbo al singolare concordi con il primo dei due soggetti, ovvero Shem. In altre parole il testo ci vuol dire che l’iniziativa di coprire il padre con il mantello venne solo da Shem, e Yefet si limitò ad appoggiarla. La spinta etica, commenta Hirsch, è tipica di Shem: per lui la nudità del padre è immorale. Yefet la approva perché constata alla prova dei fatti che essa è valida sul piano a lui più consono, quello estetico: la nudità del padre è semplicemente indecorosa. L’etica è un riflesso dello spirito; l’estetica, l’arte è ancora una via di mezzo, una sintesi fra spirito e materia. Il diverso carattere di Shem e Yefet si riflette a sua volta nella berakhah che riceveranno dal padre. D., la fonte di ogni morale, resta patrimonio di Shem: abiterà nelle sue tende. A Yefet viene promessa in cambio larghezza di mezzi materiali. Il versetto, peraltro, può essere interpretato in modo differente. Chi è il soggetto della frase: “abiti nelle tende di Shem”? D., o non piuttosto Yefet stesso? In tal caso, il significato della berakhah si arricchisce notevolmente. Non ho obiezione alcuna – direbbe Noach – che Shem accolga nelle sue tende il senso artistico proprio di Yefet. Purché si ricordi sempre che la sua vocazione è un’altra: quella di essere l’ispiratore etico dell’umanità. Alla vigilia di Chanukkah il rapporto fra cultura etica e cultura estetica, fra contenuto e forma, si ripropone nel confronto fra gli ebrei, figli di Shem, e i greci (in ebraico: Yawan), figli di Yefet (Bereshit 10,2). Oggi viviamo in una società nella quale i valori di Yefet imperano. Mi riferisco al culto dell’immagine e dell’apparenza. Mi limiterò pertanto a riportare quanto si attribuisce ad Ernest Renan, un filosofo non ebreo di fine Ottocento, a proposito della differenza di fondo fra greci ed ebrei. “Per i greci – diceva – ciò che è bello è buono; per gli ebrei, invece, ciò che è buono è bello”. C’è ancora un’altra interpretazione ottocentesca dei nostri versetti ed è quella del Malbim. Al pari di Hirsch, anch’egli scrive che “Shem intraprese la Mitzwah (di coprire il padre) per primo”, ma caratterizza in modo diverso i due fratelli e la relazione fra loro. Per Malbim Shem “apparteneva agli uomini Divini (min ha-anashim ha-Eloqiim)” e in quanto tale è imitato da Yefet, “dal momento che l’obbligo di preservare la dignità del genitore sussiste anche sotto il profilo della consuetudine politica (nimmùs ha-medinì): in definitiva, entrambi i figli concorsero a coprire la nudità del loro padre”. Per Malbim dunque Shem, antesignano del popolo d’Israele, rappresenta la religione con i suoi valori di rapporto con il Divino, mentre Yefet, antenato dei Greci, simboleggia i valori della polis, la comunità degli uomini. Parallelamente a quanto Hirsch affermava sull’arte, anche per l’interpretazione del Malbim vale analoga constatazione: “Yefet abiti nelle tende di Shem” significa che la politica rimane una dimensione valida nella misura in cui sia ispirata e si renda portavoce terrena dei valori etici superiori. Se così non fosse, la politica sarebbe priva di legittimità. Come dice la Chokhmah (Sapienza) Divina nei Mishlè: “é in virtù mia che i re regnano” (8,15)! Per questo fu pagato un duro prezzo in relazione al possesso di Eretz Israel. È lo stesso Malbim a notarlo commentando i versetti relativi alla berakhah paterna. “Allorché D. legò il Suo Nome ad Israele, figlio di Shem, questi conquistò la terra sottraendola ai Cananei, figli di Cham, che ad esso si asservirono. Ma dopo che Israele a sua volta fu esiliato dalla terra e ‘nelle tende di Shem’ si furono insediati i figli di Yefet (Persiani, Greci e Romani successivamente), i Cananei passarono in servitù a questi ultimi”. La disputa non è dunque fra noi e Cham, bensì fra noi e Yefet. Chanukkah rappresenta il momento storico di maggiore tensione su questo punto, in quanto all’epoca asmonea Shem e Yefet si dividevano il dominio di Eretz Israel e inevitabilmente si scontrarono sui valori fondamentali. Chi dei due vanta maggiore legittimità? Credo che la risposta sia nella fedeltà ai valori stessi. La Terra d’Israele ci è stata assegnata perché attraverso di essa noi ci rendiamo testimoni della “forza delle Sue opere” (Tehillim 111,6). Solo questa testimonianza da parte nostra ci procura giustificazione a fronte dell’opinione pubblica occidentale (V. anche il comm. ‘Amar Neqè di R. ‘Ovadyah da Bertinoro al primo Rashì sulla Torah).
Alberto Moshe Somekh, rabbino
Pagine Ebraiche, novembre 2013