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Il raffronto speculare tra Noè e Abramo, evidenziato da moti esegeti, è il paradigma di due modalità diverse di rapportarsi agli altri.
Noè, con la sua arca, richiama quella inopinabile necessità di mettere al riparo se stessi e i propri figli dal rischio di restare sommersi dal diluvio e dalla degenerazione di una società. Abramo, viceversa, con la sua tenda aperta, costituisce l’archetipo dell’altruismo mettendo a rischio la sua stessa salute e armonia familiare, con il “sacrificio” di entrambi i suoi due figli. Abramo è colui che si mette in gioco, rischiando in prima persona, per andare a salvare un nipote che lo aveva abbandonato, Lot il primo “ebreo lontano”.
La doverosa profusione di energie dedicata al recupero degli “ebrei lontani” non dovrebbe, comunque, andare a detrimento e a rallentare il cammino di coloro che scelgono di scandire il loro impegno ebraico con passi più veloci.
Il problema nasce quando, come nella storia di Noè, si diventa un po’ troppo autoriferiti chiudendosi in un’arca e dimenticandosi di tutti gli altri rimasti fuori. Non a caso l’epilogo della avventura di Noè è segnato da un suo stesso degrado etico e da una morbosità di una parte della sua famiglia nella quale si consuma un atto di sodomia e/o castrazione da parte di uno dei suoi nipoti con la complicità di uno dei suoi figli.
Anche ai nostri esegeti, e a noi con loro, piace sicuramente di più il profilo di Abramo rispetto a quello di Noè. Ma della granitica missione di Abramo resta in tutti noi un interrogativo inquietante. Dove sono finite tutte le persone che Abramo aveva avvicinato? Cosa resta di tutta questa “accoglienza” di cui Abramo è paradigma? Probabilmente, ancora una volta, la Torah vuole trasmetterci, attraverso questi modelli, quell’inclusività di ragionamento che tiene conto di differenti posizioni che ognuno di noi dovrebbe integrare.

Roberto Della Rocca, rabbino

(8 novembre 2016)