MUSICA E LINGUAGGI Bob Dylan, un menestrello a Stoccolma

dylan“Sapevo che a un certo punto di quel viaggio ci sarebbero state ragazze, visioni, tutto: sapevo che a un certo punto di quel viaggio avrei ricevuto la perla” (Jack Kerouac, Sulla strada). In un’intervista Bob Dylan dichiarò che quel libro, simbolo di una generazione, gli aveva cambiato la vita. E forse, potremmo aggiungere, ne aveva delineato involontariamente il corso: donne, visioni, tutto, anche la perla: il Premio Nobel. Peccato che lui non fosse pronto a riceverla. Sul suo silenzio si sono espressi davvero in tanti, perché l’universo della comunicazione, in ogni sua espressione, è così interessato a produrre opinioni da non prendere neppure in considerazione la possibilità di rispondere allo stesso modo: con il silenzio. Da bravo musicista forse lui l’avrebbe fatto. The sound of silence, cantava nel celebre duetto con Paul Simon, perché in molte situazioni della vita, belle, tragiche o anche solo paradossali come questa, le parole non servono. E invece le parole intorno a questa vicenda ci stanno assordando: c’è chi dissente, chi approva, chi si adopera per definire la sua identità e stabilirne un’appartenenza. Ma chi è Robert Allen Zimmerman alias Bob Dylan? Dipende da chi risponde. Per l’ambiente ebraico è il nipote di due ebrei immigrati dall’est Europa, che cresce nella comunità ebraica di Hibbing (Minnesota), da ragazzo frequenta i campi estivi intrisi di ideologia sionista presso l’Herzl Camp, da adulto sposa Sara, anche lei figlia di ebrei immigrati dall’Est Europa e i due hanno cinque figli. Il primogenito Jesse celebra il suo bar mitzvah a Gerusalemme e papà indossa con orgoglio la kippa, la stessa che metterà per suonare l’armonica sulle note di Hava Nagila durante il telethon del movimento chabad e per il seder al Hollywood’s Temple Israel insieme a Marlon Brando. Per il figlio Jacob, invece, il cantautore compone una delle sue canzoni più belle, Forever Young, che vedrà decine di cover tra cui quella davvero ineguagliabile di Harry Belafonte. Forever Young è un grande dono, un testo colmo di benedizioni e non manca la citazione biblica, perché lui augura al suo Jacob di poter costruire una scala verso le stelle e di salirne ogni gradino. Il cantautore ama i riferimenti biblici, prova ne sono la citazione del profeta Isaia in All Along the Watchtower e la figura di Abramo in Highway 61 Revisited. Ma Robert Allen Zimmerman non si limita a far vivere attraverso la sua musica gli antichi versetti e il legame con la tradizione e nel 1983 si schiera dalla parte di Israele con la canzone Neighborhood Bully, in cui Israele è un uomo (!) ingiustamente etichettato come bullo per il fatto che si difende dagli attacchi costanti dei vicini. “Vivrà secondo le regole che il mondo ha fatto per lui perché ha un cappio al collo e una pistola puntata alla schiena”. Per chi ha vissuto e/o studiato la cultura americana degli anni ’60- ‘70, invece, lui è Bob Dylan, l’espressione musicale della beat generation, il ragazzo che vuole seguire le orme di Woody Guthrie, suona l’armonica e la chitarra e fa incetta di musica nel negozio di dischi di Izzie Young. È la voce rude che canta il folk con l’atteggiamento del rock ‘n roll, che viene guardato con sospetto da molti e solo grazie al produttore John Hammond, un grande talent scout, ottiene un contratto con la Columbia Records. Lui fa parte di quel vasto gruppo di “menti eccelse distrutte dalla follia che esponevano i cervelli al Cielo sotto l’El […] che studiavano Plotino, Poe, San Giovanni della Croce, telepatia e bebop cabbala” come scrive ne L’Urlo il poeta Allen Ginsberg, anche lui figlio di ebrei, autore di uno straziante Kaddish per la madre malata psichiatrica. Tra il 1975 e il 1976 Allen Ginsberg sale sulla carovana in stile burlesque di artisti, circa una settantina, capitanati da Dylan e impegnati nel Rolling Thunder Revue, una serie di 57 concerti in giro per l’America. A quella carovana si aggregano in periodi diversi anche Joan Baez, Joni Mitchell e Roberta Flack. Per chi si occupa di storia sociale, Bob Dylan è l’artista impegnato politicamente, l’autore di brani come Masters of War e Talking World War III Blues. È il pacifista che imbraccia la chitarra insieme a Joan Baez nella battaglia per i diritti civili; accanto alle ballate i due intonano gli antichi spiritual della tradizione afroamericana, che recano un messaggio universale di desiderio di libertà e riscatto e che lui conosce grazie alla sua relazione con Suze Rotolo, impegnata nei movimenti di protesta e nel Congress of Racial Equality. È lei a introdurlo al tema dei diritti umani e a fargli conoscere le ricerche di Alan Lomax, il punto di riferimento fondamentale nelle ricerche di etnomusicologia nella tradizione afroamericana. Insomma, ciascuno ha il proprio Bob Dylan e ama leggerne la figura in relazione a una specifica appartenenza, ma chi vive nel mondo della musica sa che un musicista non appartiene a nessuno, tranne che a se stesso e alla propria musica. Sono le canzoni che ha scritto e cantato a raccontarci il suo viaggio “on the road”, la sua storia personale ma anche quella con la S maiuscola e a restituirci l’immagine di un uomo che è la somma e la sintesi di ambienti, culture e fedi diverse. È davvero difficile dunque rispondere al quesito di cui sopra: “Chi è Robert Allen Zimmerman alias Bob Dylan?”. Ci possiamo provare con una sua celebre canzone, interamente costruita sulle domande, che nel refrain ripete “the answer is blowin’ in the wind”. D’altronde, come insegna la tradizione ebraica, non è la risposta che conta, ma la domanda.

Maria Teresa Milano, ebraista
Pagine Ebraiche, novembre 2016