JCiak – American Pastoral

Il coraggio merita sempre un plauso. Anche se è il coraggio dell’incoscienza, come quello esibito da Ewan Mc Gregor nella doppia veste di regista e protagonista di American Pastoral. Ricavare un film da un romanzo di Philip Roth, ormai si sa, è praticamente impossibile, come conferma anche il recente Indignation dell’esordiente Julian Schamus tratto dall’omonimo romanzo.
Estrarre un film da uno dei lavori più complessi di Roth, giocato su più registri narrativi e irrorato da un’ironia feroce, è un’impresa disperata. Il rischio, come accade a Ewan Mc Gregor, qui al suo esordio alla regia, è di strizzare un potente affresco storico, sociale e psicologico nell’intimismo di una storia di famiglia.
Eppure il film, con una splendente Jennifer Connelly nella parte di Dawn e Dakota Fanning nel ruolo della figlia Merry non è tutto da buttare, soprattutto nella prima parte che ricostruisce, con un velo di nostalgia, un pezzo d’America e di mondo ebraico americano che la violenza degli scontri razziali e politici che scuotono il Paese nei Settanta finiranno per lacerare e travolgere.
American Pastoral è la storia di Seymour Levov (Ewan Mc Gregor). Soprannominato “lo Svedese”, è uno di quei meravigliosi stranieri che popolano il mondo ebraico di Philip Roth. È bello, alto, biondo e atletico. Miete successi e finisce per sposare Miss New Jersey (Jennifer Connelly), un’avvenente shikseh che finisce per conquistare persino il tradizionalista padre di lui. Lo Svedese incarna il sogno americano di ordine, prosperità e pace, finché le contraddizioni che esplodono nel Paese finiscono per devastare persino la sua vita quieta e ordinata.
A “portare la guerra in casa” – come si diceva allora – è la figlia Merry (Dakota Fanning), che dopo un sanguinoso attentato si darà alla clandestinità condannando lo Svedese a una ricerca infinita e la madre a sfiorare l’orlo della follia per poi trovare una ragione di vita nella chirurgia estetica e in un amante.
A raccontare l’intera storia è un compagno di scuola dello Svedese, lo scrittore Nathan Zuckerman, alter ego di Roth in tanti romanzi, la cui presenza nel film suona però parecchio artificiosa. Non è però l’unico problema di questo lavoro. Malgrado ci riporti con grande attenzione estetica gli scenari di quegli anni (certe immagini sembrano sgorgate dritte dalla mano di Ed Ruscha) e riecheggi la violenza rabbiosa degli anni del Vietnam e del Watergate attraverso notevoli footage d’epica, questa Pastorale americana rimane sospesa. La potenza narrativa di Philip Roth e la sua capacità d’intrecciare privato e pubblico in un’unica trama sono lontani. E certo non aiuta la seconda parte del film che, in una sorta di cupio dissolvi, ci sprofonda nella squallida clandestinità della giovane Merry – così squallida che alla fine sembra una caricatura. Ma l’esordiente regista McGregor merita comunque un plauso, se non altro per averci provato.

Daniela Gross

(10 novembre 2016)