Lekh…
Il Midràsh rileva che l’espressione “Lekh lekhà” compare sia qui, quando Avrahàm riceve l’ordine di abbandonare la sua terra, la famiglia e la casa paterna, sia al momento della ‘Akedà, del cosiddetto “sacrificio di Isacco”, e si domanda quale sia più importante; conclude poi dicendo che il fatto che per il secondo sia scritto “verso la terra di Moriyà” ci fa capire che il secondo è più importante del primo.
Letto così, è un midràsh poco chiaro. Capiamo che stiamo parlando della gravità della prova cui ognuno dei due “Lekh lekhà” fa riferimento, e che la conclusione è che la ‘Akedà è una prova più difficile della prima. Ma questo lo si potrebbe comprendere anche semplicemente per logica, senza scomodare un versetto che ai nostri occhi non sembra particolarmente dimostrativo. È evidente che il sacrificio di un figlio è una prova senza uguali!
La realtà è che il Midràsh, col suo linguaggio sintetico, ci vuol dire molto di più. In primo luogo vuole sottolineare che l’uguaglianza dell’espressione “Lekh lekhà” ci suggerisce un legame fra i due momenti. Sono quindi ambedue momenti fondamentali non solo nella vita di Avrahàm, ma anche come messaggio per noi, in ogni generazione, e hanno uno scopo simile. Quale? La parola “lekhà” ci suggerisce che quale che sia lo scopo, esso è per noi, a nostro vantaggio.
Andare via dalla Mesopotamia e dalla casa paterna, ossia dall’idolatria, significava – e significa – realizzare se stessi. Non è possibile realizzarsi ebraicamente se non si esce dalla confusione (Bavèl, ossia la Mesopotamia) di tutti i falsi idoli che ci circondano. Ma per quanto ciò possa essere difficile, ciò non è nulla di fronte alla necessità di preoccuparsi della continuità dei figli, del portarli al “Moriyà” (timore di D.o), farli “salire” dedicandoli completamente alla realizzazione di sé attraverso una crescita nella consapevolezza della “vicinanza”, dell’essere “karòv” (la stessa radice di “korbàn”, sacrificio) a D.o, e quindi della necessità di seguirLo con tutto se stessi.
Il primo “Lekh lekhà” rappresenta proprio la presa di coscienza individuale, il secondo – dice il Midràsh – ci dice che essa non è sufficiente se non facciamo in modo che le nuove generazioni salgano più in alto di noi.
Elia Richetti, rabbino
(10 novembre 2016)